Sì, un biplano, esatto.

Ce n'era bisogno?
No, ovviamente no.
"Un uomo senza blog è come un pesce senza bicicletta" dice più o meno il saggio e questi sono tempi in cui ci sono più blog che uomini, pesci e biciclette messi insieme.
E allora?
E allora eccomi qui a fare un altro ennesimo blog nascosto tra i milioni di altri blog. Perché sì. Perché io ho una passione, male comune nella razza umana, e leggere quei pochissimi blog esistenti su questa mia inusuale passione mi ha dato l'energia per arrivare in fondo, mi ha dato emozioni tali che un infermiere potrebbe scambiare per sintomi di epilessia.
Così ecco questo blog: uno tra i tantissimi blog, ma uno tra i pochissimi a parlare di biplani.
E non dei biplani degli eroi o dei pilotoni con carte di credito placcate d'oro. No.
Sono un impiegato, ho una famiglia, ho come tutti mandrie di simboliche nuvole nere che tolgono il sole e a volte mi fradiciano: se ci sono riuscito io può riuscirci chiunque. E un blog che racconta una storia simile non l'ho mai trovato, e se l'avessi trovato, caspita!, mi avrebbe reso felice.
Ho una chance di rendere felice qualcuno, come non approfittarne? :)
Quindi iniziamo: "C'era una volta un biplano..."

sabato 16 maggio 2020

17. Il bambino e il biplano

Coincidenze.
Avevo scritto e pubblicato la storia del post precedente sul mio incontro con Greta, la Signora tedesca. E subito dopo ecco Alessandro, senza aver letto cosa avevo pubblicato, che mi manda la storia del suo incontro con – beh non sappiamo ancora il suo nome ma è il biplano che lo aspettava. La sensazione è quella: quando ti metti in testa che nel tuo futuro ci sarà un biplano, nel tuo futuro ecco un biplano iniziare ad aspettarti. A quel punto se sei in gamba sai che il gioco è fatto: il biplano è tuo, ce l'hai, solo che anziché averlo distante un certo numero di chilometri da casa ce l'hai distante un certo lasso di tempo da te. Ma poi quel momento arriva e lui ti aspetta lì, ti ha sempre aspettato, sto diventando pericolosamente metafisico oh sciagura, tutta la strada che hai fatto aveva il solo scopo di portarti in quel punto, in quel momento, a carezzare il tuo biplano – che tu ancora non sai che sia il tuo biplano ma lui ha pazienza e te lo perdona, sa che con gli umani funziona così – e in quel punto finalmente puoi iniziare a vivere.

Sono eccessivo? Eh. Vallo a dire a un pilota di biplano. Sai che ti dirà? "Sì, Gianni è eccessivo", ovvio. Però poi se si ferma un attimo a pensare a come sarebbe stata la sua vita se non fosse passato per quell'incontro col proprio biplano lo vedi impallidire.

Ma torniamo ad Alessandro. Ha incontrato il suo biplano e l'ha voluto raccontare. In modo originale, con disquisizioni a guarnire il racconto, con invenzioni narrative e richiami nascosti nel testo. E come si fa a non inserirlo qui nel blog? Grazie Ale per avermelo permesso! 

Una nota a più pagina: l'incontro di Alessandro col suo compagno di volo è avvenuto subito prima degli arresti domiciliari in cui è caduta l'Italia per la quarantena di cui mi sforzo di non dire nulla per diplomazia. Non so se vi rendete conto di quanto questo sia uno scherzo del fato per un pilota. Bastardo d'un fato. Trovare il proprio biplano dopo anni di ricerca ed essere costretto a chiudersi in casa lontano da lui per tre mesi nel momento in cui sai che c'è, sai che è lì, sai che è tuo. No comment. Alessandro, hai tutta la mia ammirazione per lo stoicismo con cui hai affrontato questo momento. Mi spiace per i tuoi vicini che non hanno dormito per i tuoi continui ululati notturni ma hai il mio appoggio.

E ora lascio la parola al mio amico Alessandro Merlini che è un pilota di biplani da molto prima di toccare un biplano.




Perché un biplano...?

In foto sembra più giovaneAll’apparenza è solo una delle tante curiosità che riguardano il Volo, eppure rappresenta un paradosso, uno di quegli interrogativi troppo semplici per essere innocui, troppo diretti per ricevere una risposta univoca e risolutiva da parte di coloro che a me piace definire “gli unici pazzi ad essere sani di mente”. Chiamiamoli pure individui affetti da biplanite cronica acuta. Io sono uno di loro.
A pensarci bene tale domanda può essere paragonata a uno di quei puri e ingenui «Perché?» che puoi aspettarti da un bambino. 
Non sono padre e forse non lo sarò mai, ma devo ammettere che sarebbe proprio bello se un giorno mio figlio me lo chiedesse.
Mi piace immaginarlo mentre attende la risposta, guardando con l’aria assorta tipica dei bimbi quella creatura con un’ala di troppo, il visetto illuminato dal sole pomeridiano come il muso dell’aereo, i capelli lievemente mossi da un alito di vento primaverile. È la prima volta che lo vede da quando ha ricevuto il dono e la maledizione della parola. Temo che d’ora in avanti possa sentirsi obbligato a dare una motivazione verbale e logica a ciò che prova, a sforzarsi di analizzare le sue emozioni ogni volta che avrà l’istinto di fare la bocca a cuoricino, a dover giustificare con una didascalia il fermo immagine dello stupore. Percepisco ciò come un grave pericolo da quando ho imparato a mie spese cosa significhi ricorrere al raziocinio per tentare a tutti i costi di arginare le proprie passioni. Mentre all’Università acquisivo con fatica la necessaria forma mentis, violentando le mie naturali inclinazioni, non mi rendevo conto che stavo costruendo intorno a me una gabbia dorata. Studiando il mondo dall’interno di questa prigione per spiriti liberi, edificata con regole preconfezionate e universalmente valide, ho imparato una lezione elementare: il modo più efficace di rispondere a una domanda del tipo «Perché un biplano…?!» è semplicemente guardare negli occhi chi la pone; la luce nei tuoi farà gran parte del lavoro sporco. Non credo sia possibile replicare in molti altri modi, per lo meno non altrettanto trasparenti e immediati. Così come è impensabile rivelare in cosa consiste quel sorriso interiore che ogni pilota sente distintamente di avere quando è nel suo elemento, quel sorriso dell’anima invisibile a un osservatore esterno che abbia i piedi troppo per terra. Sarebbe un po’ come descrivere l’aspetto degli angeli. Io non ho fede, ma credo nella spiritualità e preferisco provocarli andando in aria, nell’attesa che a uno di essi un giorno venga la tentazione di abbassarsi alla mia quota per farsi intercettare. Probabilmente solo giunti a metà vita si comincia a capire quanto le parole siano sopravvalutate, come troppo spesso rischino di attivare quelle zone del cervello adibite a imbrigliare tutto ciò che tende a sfuggire al nostro controllo, anche quando si sta vivendo l’altra metà del cielo.
Andare alla ricerca di una risposta per mio figlio è quindi una responsabilità immensa, mi fa pensare al battito d’ali di una farfalla nella teoria del caos. Dal modo in cui le mie parole saranno percepite, se arriveranno dove spero o si fermeranno invece appena varcata la soglia delle sue orecchie, dipenderanno troppe cose. È molto sottile il confine tra l’essere in grado di far germogliare un seme e lasciare incolto per sempre un terreno fertile. Uno spericolato funambolismo emotivo.

Mentre il piccolo segue con gli occhi il profilo di quella misteriosa macchina volante dall’aria austera e antica, ne accarezza delicatamente i contorni e alzando lo sguardo mi chiede: «Papà, perché ha due ali?».
L’ultimo ad avermi domandato: «Perché proprio due ali?!» è stato un amico broker mentre al telefono cercavamo di definire i dettagli della polizza. La mia risposta è stata: «Perché ami tua moglie?». Mi è capitato spesso di riflettere: “Come può un uomo inseguire, a volte per tutta la vita, un’ideale che neanche lui ben conosce o comprende, sperando di trovarlo proprio in una donna con cui magari invecchiare?”.
Assicurazioni, argomento arido ma necessario che adesso voleva dire solo una cosa: dopo otto anni il biplano mi aveva trovato. Non riuscivo ancora a crederci e ne sarebbe passato di tempo prima di realizzare appieno, ma alla fine era successo. Proprio quando mi son sentito a un passo dalla resa e dalla rinuncia al sogno, inaspettatamente e per una serie di circostanze ambasciatrici del “nulla accade per caso”, era arrivato… o arrivata. Non mi era ancora chiaro in effetti se fosse maschio o femmina, ho sempre saputo che i biplani dovessero essere considerati delle Signore cui andrebbe dato un nome da pin-up. Quello che si è fatto scegliere da me ha un aspetto senz’altro robusto, ricorda un rassicurante padre di famiglia o magari un fratello maggiore. Dovevo aspettare ancora un po' per esserne sicuro. Avrei dovuto sentire la sua voce, ascoltarla osservando girare l’elica da dietro, dopo averlo indossato. Per avere la conferma che eravamo fatti davvero l’uno per l’altro.
Solo ora riuscivo a capire che quello che stavo vivendo era l’attimo di cui gli amici più esperti con la mia stessa sindrome avevano sempre parlato: quello in cui realizzi che senza saperlo stavi cercando proprio quel biplano, o più probabilmente lui stava aspettando te. Il momento verso il quale sei inconsapevolmente guidato da una forza misteriosa e tenace, che ti ha fatto persino soffrire, ma che aveva il fine ultimo di condurti dritto a quell’incontro. Proprio con lui. Proprio in quell’hangar. Proprio in quel periodo, con quello che di certo non credevi fosse lo stato d’animo più adeguato.
Finalmente ci conoscevamo, dopo 8 anni di rabdomanzia e pellegrinaggi, interminabili come il simbolo che richiamano, sofferti come una gravidanza. E già, credo proprio che se i biplani potessero essere partoriti questo sarebbe il tempo necessario per la gestazione, almeno per quanto mi riguarda. Speriamo ci siano delle sane eccezioni, di sicuro ci sono stati molti parti prematuri.

Il bimbo continua a sgambettare vicino a quel giocattolo più grande di lui, mi fa pensare a uno sciamano delle tribù indiane d’America che danza intorno al fuoco o a un totem. Continua a girarci attorno senza mai perdere il contatto fisico, non smette un istante di toccarlo. Sorrido. È un ottimo segno: gli piace. La sensazione della tela leggermente ruvida sotto i polpastrelli gli fa immaginare come doveva essere accarezzare un dinosauro che dorme. Cammina a piccoli passi ancora incerti, in fondo ha solo quattro anni, ma studia il suo nuovo amico con profonda attenzione, con quel tipico impegno che solo i bambini sanno mettere anche nelle cose più semplici. Si china sulle ginocchia per curiosare sotto una delle ali inferiori: «Papà qui sotto non c’è nulla, come fa a volare?». Giunto davanti all’elica la esamina e, grattandosi la testa, sorride dolcemente imbarazzato. Lo tengo d’occhio divertito mentre aspetto con pazienza in piedi accanto all’abitacolo. Mi corre incontro e si aggrappa alle mie gambe. Lo sollevo tenendolo per i fianchi poco sotto le braccia, vuole guardare dentro: «Oooh che belloooooooo! È tutto di legno e pelle, ha l’odore del salotto di nonna in montagna!». Gli faccio poggiare i piedi sul sedile e lo aiuto a sistemarsi al posto di pilotaggio, una gamba di qua e l’altra al di là della barra. Mentre con il piccolo indice ne disegna lentamente i contorni, chiede: «Papà, cosa sono tutti questi orologi?». Gli racconto con voce pacata, sottolineandone l’importanza, la funzione dei comandi e degli strumenti installati sul cruscotto. È un utile ripasso anche per me. Questa è la parte facile, sono solo questioni tecniche, e lui le capisce subito fin troppo bene. Annuisce silenzioso, facendo ogni tanto: «Mmm mmm» mentre osserva con sincero interesse quello che ha davanti e intorno a sé, girando la testa in ogni direzione. Impugna delicatamente la cloche con la mano destra e la leva del gas con la sinistra, arriccia il naso e scruta perplesso oltre il parabrezza: «Papà, a cosa servono i fili?».
La mia memoria, con la sua ricca collezione di diapositive, viene immediatamente proiettata al periodo in cui frequentavo la scuola di volo e in particolare al giorno dell’esame per conseguire l’attestato.

Avevo adocchiato già da qualche tempo l’aereo personale del mio istruttore. Lo trovavo sempre in hangar, muso all’insù, fiero e forse un po' superbo. Sembrava sentirsi fuori posto lì in mezzo. Abbandonato tra simili troppo diversi da lui. Troppo conformisti per riconoscere la sua singolare bellezza. Troppo presuntuosi per comprendere la sua eleganza fuori dal tempo. Nonostante la poca luce, il freddo del suo ricovero e la compagnia stonata, rimaneva silenzioso, come se aspettasse pazientemente qualcosa o qualcuno.
Senza rendermene conto avevo iniziato a corteggiarlo. Lo avvistavo ogni volta, già da lontano scendendo dall’auto, proprio grazie a quei “fili” di acciaio tesi a incrocio tra le quattro semiali, che tagliavano a spicchi la figura del meccanico intento a lavorare dietro la sua coda. Lo stesso meccanico che di lì a poco avrei contagiato e che mi avrebbe accompagnato in giro per l’Italia alla ricerca della mia Signora. Col tempo mi ha confidato che il motivo per il quale aveva sentito il desiderio di aiutarmi era una insolita forma di ammirazione, visto che ero l’unico allievo della scuola a non essere minimamente interessato a fare l’ennesimo turista della domenica con il solito ultraleggero.
Non era la prima volta che vedevo un biplano in quel campo volo. Avevo ancora scolpiti nella memoria parecchi ricordi di foto e disegni su libri e riviste - le letture della mia infanzia - come pure degli innumerevoli modellini costruiti con tanta perizia, che a quanto pare all’epoca non avevano lasciato il segno.
Mio padre volava per lavoro ed io ho ricevuto il battesimo dell’aria all’età di otto anni, un numero che inspiegabilmente ritorna. Ho avuto l’immensa fortuna di poter viaggiare molto con lui e la maggior parte di questi voli li ho vissuti da spettatore privilegiato, alle spalle dei piloti.
Adesso però la storia era diversa: stavo imparando a volare. Davanti ai miei occhi non c’erano più immagini su cui fantasticare, aggressivi caccia che sognavo di pilotare se avessi potuto fare l’Accademia o enormi aerei di linea cui avevo rinunciato per laurearmi. Ora c’erano aerei a misura d’uomo, che potevo toccare. Ora spettava a me portarne in aria uno. Ero io il responsabile del volo ai comandi. Io la causa per cui “staccavamo l’ombra da terra”. Finalmente potevo sentire il più autentico profumo che prelude a un decollo, quel misto di erba appena tagliata e benzina.
Per seguire le lezioni ho percorso un’infinità di chilometri e passato molte ore in macchina. Con la nebbia. Con la neve. Spesso tornavo a casa a notte fonda. Non volevo la scuola più vicina, ma la migliore tra quelle raggiungibili. Lo rifarei ancora, con lo stesso identico entusiasmo.
Tutte le volte che arrivavo al campo era inevitabile passare davanti all’hangar-officina sempre aperto e mi fermavo a contemplare affascinato le linee raffinate e i tiranti di quell’eccentrico apparecchio che vedevo sempre a terra, mezzo addormentato. Un apparecchio così diverso da tutti gli altri, che gli stavano intorno come immobili satelliti, che si distingueva per la sua sfuggente personalità. Con i piedi e le ruote a contatto col terreno non era consentito svelarla. 
Il biplano era molto diverso anche dall’aereo che dovevo raggiungere per la lezione e avevo spesso l’impressione che fosse sul punto di chiamarmi. Sembrava emettere un impercettibile richiamo e io cominciavo ad ammirarlo con gli occhi di un bimbo fermo davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli quando vede il suo preferito.
Ho preso a tampinare il mio istruttore per il resto del corso, cercando con educazione e pazienza di indurlo a farmi fare un giro come passeggero. Il giorno dell’esame, a mia insaputa, aveva deciso di portarmi in volo. Un premio per aver superato la prova e aver messo le ali. Ali che mi aveva consegnato un paio di settimane prima, il giorno in cui sono nato per la seconda volta. Il giorno del mio primo volo da solista.
Mentre lui offriva da bere alla Signora e controllava che tutto fosse in ordine, io le giravo intorno, come ora stava facendo il bambino. Un’unica differenza: io non riuscivo a parlare. Ero l’incarnazione di Felicità e Meraviglia, entrambe dee mute.
Quel volo fu la cornice perfetta per il mio brevetto. Adesso ero un pilota e avevo capito cosa desiderare. Ero stato folgorato sulla via di Damasco, che nel mio caso era una striscia d’erba nella bassa pianura bresciana.
Spento il motore sono sceso controvoglia, come un fanciullo da una giostra, ma con una sensazione di benessere mai provata prima. Ho ringraziato silenziosamente con una carezza la creatura dal perfetto numero di ali e mi sono abbandonato sull’erba accanto a lei, con un sorriso a trentacinque denti, come il numero di anni che purtroppo avevo aspettato per rinascere. 
Quel pomeriggio. Su quel prato. Sotto il sole di maggio che stava per tramontare. Mi ero innamorato.
Negli anni a seguire ho capito che non era assolutamente importante che fosse in alluminio, legno o composito. Monoposto o biposto. Che avesse la cabina aperta o chiusa. Che fosse una moderna replica veloce o giurasse fedeltà ai lenti parametri d’epoca. Non c’era una ragione, non poteva e non doveva esserci. Era un fatto che potevo solo accettare. Era passione e basta.

Il bimbo mi chiama: «Papà, mi piace tanto guardare il cielo da qui, sembra un disegno!». È ancora seduto al posto di pilotaggio, lo sguardo fisso davanti a sé punta lontano, nell’azzurro intenso incorniciato tra le quattro semiali. I “fili” sussurrano piano esposti al vento, sembrano delle fusa o una richiesta fatta sottovoce. Il biplano attende placido davanti al suo hangar. Siamo a maggio, il mese in cui sono nato. Otto anni esatti dal pomeriggio in cui mi son disteso sull’erba a fissare il cielo con lo sguardo perso e il cuore che palpitava. Come allora il sole sta per svanire ai margini della pianura.
«Vieni piccolo, ti sistemo nel posto anteriore, quello per le persone importanti. È arrivato il momento di volare…». Non mostra alcun timore, emette solo gridolini di gioia.
Mentre gli sistemo il caschetto di pelle, gli occhialoni e la sciarpa di seta bianca che gli ho fatto fare per l’occasione, mi accorgo di quanto mi somigli. Lo accarezzo teneramente sulla guancia e il pensiero va subito ad una vecchia foto di quando avevo circa la sua età, una stampa in bianco e nero su carta Kodak ancora appesa al muro della mia camera da letto: indosso un cappotto di Loden con il bavero alzato, il sole mi illumina il viso mentre sorrido col naso all’insù e un’espressione di grande sorpresa. Mia madre dice che ero rimasto incantato da un aeroplano ad alta quota.

Io e il bambino siamo in volo. Al cielo non potrei chiedere di meglio. Mi sta facendo il regalo più bello mostrando tutte le sfumature di cui è capace, quelle che ho sempre immaginato e desiderato. L’aria turbina intorno a noi, il motore fa il suo dovere girando morbido, ma ad ascoltare bene c’è silenzio. Le sciarpe danzano in aria, scintillando come serpenti di madreperla alla luce calda del crepuscolo. Il bimbo si gira e mi sorride attraverso i grandi occhialoni un po' storti, con un’espressione fin troppo eloquente e una luce negli occhi che sento di avere anch’io. Se non fosse troppo piccolo direi che si è innamorato. Guardando davanti a sé stende in alto le braccia e grida qualcosa che non capisco al vento. Si volta di nuovo, è tutto guanciotte e dentini. Leggo le sue labbra mentre mormora: “Grazie Ale”.
Gli restituisco lo sguardo come farebbe ogni padre amorevole e gli mando un bacio. Mi osservo intorno. Sono immerso in quella dimensione che ogni pilota insegue come un richiamo. L’unica in cui può essere davvero libero. Respiro profondamente. L’aria è un distillato di pura serenità. Il sogno non è più un’illusione. È proprio vero, sto sorridendo dentro.
Una rapida occhiata agli strumenti e poi di nuovo fuori, sembra di essere sospesi in un dipinto impressionista. Penso: “E’ la cosa più bella del mondo…”.
Un’ampia virata per tornare verso casa, quella da comune mortale. Contemplo l’orizzonte al di là dell’elica, con gli occhi lucidi e la felicità che regna indisturbata sul mio viso. Il sole sta andando a dormire. Mi rispondo: “Ecco perché…”.
E in quel preciso istante mi accorgo che a bordo ci sono solo io.


A.M.
Milano, 04/05/2020

domenica 12 aprile 2020

16. Greta

Bucker Jungmann
L'ultimo volo del Vecio
5 dicembre 2015. Entro dentro il grande hangar storico di Gorizia, una struttura magnifica dove gli aerei avevano non una pista ma un'area intera dove decollare e atterrare sempre controvento, e incontro Greta. Che ancora non si chiamava Greta ma Vecio, vecchio. "Allora è lui". Un biplano grigio, solenne, troppo serio per me mi sono detto. Certo me lo aspettavo diverso. Più colorato, più leggero, simpatico. Però era lui il biplano in vendita.
Bücker Jungmann. Uno della tripletta di biplani biposto degli anni '30 di cui scrivevo. L'eleganza della linea funzionale, la creatura della tecnologia nazista che rivoluzionava le linee. Per quei tempi era un biplano del futuro, tanto che il suo successo lo portò a essere replicato e costruito dalla Spagna al Giappone, dal Sud Africa alla Finlandia. Ma questa è un'altra storia. Il grande biplano davanti a me era una sua replica in scala 1:1 costruita nel 2002, ultraleggera nonostante l'imponenza. 
Greta, che ancora non era Greta, era davanti ai miei occhi. Il meccanico Giggi gli girava intorno con rispetto; Igino, il proprietario, mi confidava "è una vecchia signora e come tale va trattata", dove signora è un titolo. Anche se poi la chiamava Vecio.
Il mio amico Mila, che mi aveva presentato Igino e Greta – che ancora era il Vecio – mi disse "entraci, stai un po' nell'abitacolo, solo tu e il biplano. Sentilo."
Ero troppo emozionato. No, non emozionato. Frastornato. Un biplano. Era così grande. Ed era un'occasione, mio padre voleva aiutarmi ad acquistarlo ed era la prima volta che mi offriva il suo aiuto, era per lui un mettersi in pace con i conti non saldati della famiglia, era una proposta di tregua per tutto il passato che non ci aveva visti davvero come padre e figlio. E voleva farlo ora, sentiva che il suo orologio stava per battere la mezzanotte. Così Greta, che ancora era il Vecio, era alla mia portata.
Non provavo emozioni perché erano troppe, troppo contrastanti, troppo inaspettate. Nulla ci prepara a un incontro simile. Subivo quel momento, pensavo "è lui, diventerà il mio biplano. Se lo voglio." Era diverso da come me lo aspettassi ma era magnifico, non avrei mai creduto di poter avere o solo volare su un mezzo così. L'ho detto che era grande? E serio? E grigio?
Igino mi mostrò i punti da controllare, i valori da annotare, le operazioni da fare. Videoregistrai tutto sul telefonino, non ero in grado di memorizzare nulla. Rividi centinaia di volte quelle due registrazioni, una per i controlli fuori e una per quelli dentro la carlinga.
Poi volammo insieme. Una giornata grigia come il biplano. Decollo lungo, e Mila che filmava, ma allora non capii che era lungo. Capii solo che stavo volando con Greta che non era ancora Greta. "Allora è lui". Pochi minuti in volo, il paesaggio intorno vestito di foschia, non sapevo cosa guardare, cosa dover ricordare; e poi l’atterraggio. Igino aveva tenuto i giri motore alti, mi sembrava veloce, scoprii poi che non lo era. Atterraggio, e il Vecio smette di essere il Vecio quando entra il silenzio. Al suo prossimo volo sarà Greta.

Giornata grigia, volo grigio, nessuna emozione perché erano troppo grandi per poterle misurare. Mi interessava? Io volevo un biplano, Greta era obiettivamente magnifica, tutti si aspettavano che l’avrei acquistata: non riuscivo a capire le mie emozioni così mi comportavo seguendo la via più logica e alla mia portata. Pensavo ai numeri, a come portarlo via io che avevo appena imparato a far atterrare un Tiger Moth, a come gestirlo (sarei stato in grado?), a come pilotarlo (non l'avrei distrutto?), a come manutenerlo (me lo sarei potuto permettere?).
Nel mio hangar a Sutri non entrava. Questo dà l'idea delle dimensioni.
Finalizzammo la vendita davanti a un gulash e a una bottiglia di rosso, Igino con grande generosità mi diede anche i due splendidi caschetti di cuoio con le cuffie aeronautiche e un GPS Garmin, organizzammo a pagamento avvenuto il volo di addio di Greta: io non ero in grado e Mila che mi aveva accompagnato non se la sentiva di avere una simile responsabilità, quindi chiesi a Mauro Di Biaggio, il gestore della meravigliosa aviosuperficie di Caorle. Concordai quello che per me era un servizio professionale a pagamento, portare un biplano da Gorizia a Caorle in volo, e per Mauro invece fu un divertimento, "ma dai mi è piaciuto, mi offri una cena e siamo a posto". Solidarietà tra piloti di biplano o forse ancora fortuna.
Mentre andavamo in macchina insieme a Gorizia Mauro fece le pulci al libretto dell’aereo controllando orari, manutenzione, problemi. Controllò tutto il mezzo che doveva portare in volo, si allacciò il paracadute personale e partì. Beh, aspetta, l'ho fatta facile per brevità: in realtà andammo un numero discreto di volte a Gorizia e ogni volta c'era nebbia. Riuscimmo a fare quel volo solo il 20 febbraio, due mesi e mezzo dopo l’acquisto. Per me che abito a Roma capisci che arrivare in macchina a Caorle a prendere Mauro, andare a Gorizia e scoprire che è stato un viaggio inutile non è proprio piacevole. Ma faceva parte del gioco. Anche Mila quando prese il suo Tigrone in Germania dovette aspettare e provare più volte.




Bucker Jungmann
Il primo volo del mattino a Caorle
Poi a Caorle cominciai a sentirlo mio. Non sapevo come toccarlo, come pilotarlo, non sapevo se sarei riuscito a portarlo nel Lazio. Ma avevo un biplano. Un bel biplano. Dopo il Tiger Moth di Mila per me Greta è il più bel biplano ultraleggero in Italia. Così non ero ancora il pilota del mio mezzo ma solo uno che aveva acquistato un biplano, e tra le due cose c’è una differenza gigantesca.
Andavo a Caorle per prendere lezioni da Mauro. Ci sono bungalow in testata pista per i piloti, dormivo lì, la sera entravo in hangar e ammiravo il biplano, il giorno con Mauro facevamo touch and go sull'enorme pista. Scoprii che Greta non era pacioccona come Tigrone. Greta voleva controllo, rispondeva, era un rapporto più professionale che emotivo quello tra Greta e il pilota. Era molto differente, dovevo imparare tutto di nuovo. E mentre imparavo venivano a galla i difetti del mezzo: il tubo della benzina ridotto a creta, il serbatoio spaccato, il carrello di coda rotto, il motorino di accensione in corto. Lavori e lezioni a 800 km da casa. Un costo inaspettato ma anche qualcosa che mi rimane dentro.
Alzarmi all'alba nel bungalow, aprire l'hangar mentre il sole sorge, tirare fuori Greta, mettere in moto squarciando il silenzio, un decollo senza testimoni e via per le lagune venete. Scorrere lenti lungo le coste e i corsi d'acqua mentre il disco rosso del sole sale piano, atterrare che ancora non c'è nessuno, sentire di nuovo il silenzio quando il motore si spegne e restano gli scricchiolii del metallo riscaldato, andare solo allora a fare colazione. E l'ultimo volo della sera, atterrare nell’oro del crepuscolo quando tutti sono via e sentire l'eco della porta dell'hangar gigantesco che si chiude. Fare amicizia con i piloti, sentire il complimento del figlio di Mauro "tu sei uno dei pochi che non si dà arie". Arie? Mi sentivo un pollo, incerto su tutto, potevo distruggere il biplano a ogni atterraggio e volavo con un mezzo che ogni due giorni dimostrava un difetto da aggiustare immediatamente. Arie? Ma scherziamo?
Anzi un giorno dopo una serie di atterraggi da cane che mi hanno fatto esclamare "Mauro, basta, atterra tu, non sono capace" ho ricevuto da Mauro il discorso migliore che qualcuno mi potesse fare.
"Gianni lo so: tu ti senti che tutti gli altri sono piloti e tu no, non sei all'altezza. Ti senti che gli altri hanno un aereo vero e tu hai un mezzo che anche lui non è all'altezza. Voglio dirti che ci siamo passati tutti. Il tuo aereo è come gli altri. Tu saprai volare come gli altri. Credi che chiunque, qui, quando aveva le ore di volo che hai tu volasse meglio di te ora? Abbiamo pensato tutti quello che tu pensi oggi. E chi ha insistito è diventato pilota. Fidati del tuo aereo e fidati del pilota che sarai.“
Mi ha aiutato tanto pensare che i fallimenti facessero parte del gioco e fossero condivisi, un patrimonio comune tra molti i aviatori. Quando poi un'amica pilota mi ha raccontato della sua frustrazione nel trovare enormi difficoltà a  imparare gli atterraggi gli raccontai di Mauro, gli dissi che in effetti anche io mi sentivo esattamente come lei quando imparai ad atterrare,  e questo le fu di aiuto. Sapere che le proprie difficoltà sono già state provate e superate da altri e fanno parte del percorso.

Dopo un anno di saltuari fine settimana a Caorle e dopo essermi goduto gran parte del litorale e della pianura veneta, ormai ero pronto per decollare con prua Emilia Romagna per atterrare nella pista di Mila dove avevo imparato a volare con il Tiger Moth, Lyra 34. 450 metri, la metà della pista di Caorle, ma mi ero allenato per farcela.

In giallo Gorizia - Caorle
In rosso Caorle - Valle Gaffaro - Lyra 34
Finalmente il giorno. 21 gennaio 2017. Più di un anno dopo l’acquisto. Giorno in cui finalmente non c'era nebbia, dopo tanti tentativi andati a monte per visibilità zero finalmente mi metto a bordo e saluto tutti i piloti di Caorle. Grazie Mauro, ciao. Temperatura esterna a livello suolo quattro gradi centigradi: se mi metto il giaccone sopra la tuta non entro in cabina quindi vado senza giaccone. No, non sono un masoschista, avevo un gilet caldo sotto e la tuta imbottita sopra, sarei stato bene lo stesso. Speravo.
Greta si prende cura del pilota, questo lo sapevo. Lo protegge. Decollo e nell’abitacolo sto benissimo, l’aria calda che viene da uno sportelletto del parafiamma tra il motore e le mie gambe è magnifica, la mia statura da puffo mi fa godere della grande protezione dell’abitacolo studiato per cavalieri teutonici usciti da un’opera di Wagner. I guanti, quelli sì, sono preziosi e mai abbastanza caldi, ma il resto è benessere puro, basta abbassare bene il caschetto di cuoio sulla fronte.
Salgo in uno splendido cielo azzurro, vedo l’aviosuperficie farsi lontana, penso che se ci sono problemi posso sempre girare la prua e tornare là.  Ma non ci sono problemi. Passo sulle risaie, sulle coste, sui corsi d’acqua che avevo imparato a conoscere come una casa, in direzione Venezia. Dio che emozione. L’aria è cristallina e fresca, i quattro gradi a terra mi fanno compagnia nel viaggio ma è appena passata l’ora di pranzo, la temperatura non scenderà per un po’. Seguo la costa, andare verso Venezia è spettacolare, ci sono paesaggi che non sembrano di questo mondo. Strisce di terra e case lambite dalle acque, più barche che macchine, città nelle lagune da cui spuntano enormi navi da crociera. Non c’è vento, pilotare è rilassante, il motore suona bene e alla radio non c’è nessuno.
Venezia, eccola. Venezia è una prova di fiducia. Perché anche se vorrei ammirarla da vicino va passata a distanza, c’è un aeroporto che non mi vuole. Così bisogna allontanarsi, entrare nel mare per un paio di chilometri: questo lo fai solo se ti fidi del tuo aereo. Se hai dubbi sul motore, sulla struttura, su di te, non c’è il coraggio di andare così al largo. OK Greta, mi fido, entriamo in mare aperto per il tratto necessario. Il cuore accelera, sì, sono solo, sono in mare, sono un pollo. Certo che il cuore accelera. E anche da lontano Venezia è stupenda.
La rotta è facile. C’è una fettuccina di terra in mezzo al nulla del mare, devo seguirla. Vista sulla mappa sembra una costa, vista in volo è una assurdità bellissima. Quando finisce ecco un rettangolo di tetti ammassati circondati da acqua, Chioggia.  Sono a un pelo dalla metà viaggio e intanto il motore ha un suono regolare e rassicurante, ogni tanto faccio esercizi per le mani che sono l’unica parte del corpo che mi ricorda la temperatura esterna; passo meno tempo a controllare gli strumenti, cosa da inesperti, e passo più tempo a guardare fuori e pensare, cosa da piloti.
Penso che non avrei mai immaginato solo due anni prima di vivere un giorno una avventura simile.
Penso che sono solo.
Penso che Mila, ormai il mio più-che-fratello acquisito, che mi ha accompagnato a Caorle solo per vedermi partire, ora con la sua auto è un puntino laggiù perso nel traffico che da Caorle sta raggiungendo Valle Gaffaro, il luogo dove abbiamo appuntamento, una pausa a terra prima dell’ultimo tratto. Ed è troppo lontano per sentirlo alla radio, la sua auto che è veloce quanto il mio biplano deve fermarsi ai semafori e rallentare per il traffico, io no.

Dopo Chioggia finisce la fase costiera del viaggio. Troppo facile seguire la costa. Ora metto la prua a sud, inizio a sorvolare l’entroterra del Polesine. Il cuore torna a battere normalmente, sotto di me ci sono molte case ma anche campi in cui se fosse necessario potrei atterrare. Mantengo la rotta sino ad attraversare il grande ramo del Po di Venezia verso il Delta del Po e da lì la rotta è facile, ci sono due corsi d’acqua che vanno verso sud, qualunque io sorvoli sarò in grado di vedere il grande bosco attiguo all’aviosuperficie. Il GPS, piccolo e nascosto a un lato della coscia – l’unico punto disponibile nella cabina – mi conferma la rotta. E ci sono delle grosse ciminiere come riferimento.
Ecco il bosco ma la grande aviosuperficie, un campo tra i campi, per assurdo non riesco a identificarla. Sono tutti campi uguali. Poi la scorgo, faccio il circuito per atterrare e appena ce l’ho alle spalle la perdo. La pista inizierà qui? O più in là?
Pollo.
Un altro giro, trovarla, prendere punti di riferimento, atterrare. Sono le 15:30. Un’ora e mezza di volo: non è tanto ma in quell’ora e mezza ho lasciato l’hangar che era stato casa, ho valicato un confine regionale e uno personale. Non si torna indietro, è fatta, sto vivendo quello che sognavo.
Emozioni? No, sono troppe e tutte caotiche, sono solo contento, eccitato, sorrido. Ci sarà tempo poi per le emozioni. Ora annoto che mi sono fidato di Greta entrando in mare aperto e lei si è meritata la mia fiducia. Annoto che non ci sono problemi tecnici, le temperature sono nei parametri, io e il biplano stiamo bene. Finalmente faccio qualche foto ma solo dopo una pausa pipì (ricordi? Quattro gradi centigradi) e una telefonata a Mila: lui è ancora lontano, mi chiede di aspettarlo. Lo aspetto. Sento il metallo di Greta scricchiolare raffreddandosi. Non c’è nessuno nell’aviosuperficie, il mio unico contatto è Mila al telefono di quando in quando. Sono volato via dal nido e non c’è nessuno per condividere, non ancora. Ma anche non c’è nessuno che mi controlli l’aereo, che mi dia consigli sul resto del volo, che mi saluti mentre riparto. Inizio a capire quel punto di cui ho scritto nel post precedente, il punto oltre il quale si fa parte di una magnifica comunità ma si è indiscutibilmente soli e i grandi momenti si impara a conservarli solo nella nostra memoria.

Bucker Jungmann
Valle Gaffaro, e il sole è basso
Aspetto e aspetto ma comincia a farsi tardi: devo arrivare al nuovo hangar prima che tramonti il sole ma già il sole è vicino all’orizzonte, se è buio non riesco né a trovare la pista né ad atterrare. Mila per fortuna arriva, in tempo per un abbraccio e per dirmi anche lui “è tardi, devi partire”. Così alle 16:15 torno a bordo, riscaldo il motore, alla radio annuncio a nessuno che sto per decollare dalla pista di Valle Gaffaro, allineo la prua alla pista dopo le prove motore e do tutta manetta: si torna in cielo. 

Prua ancora a sud. Passo una enorme magnifica palude. Forse dovrei chiamarla laguna ma dal mio punto di vista è solo un’indicazione geografica, uno spettacolo oltre il bordo della cabina, oltre il cielo e il flusso del vento freddo dell’elica. Devo sbrigarmi ormai, per questo non ho fatto il turista volando intorno all’abbazia di Pomposa come mi aveva mostrato Mila col suo Tigrone, però non posso evitare di perdere tempo sulla laguna, osservare lontani i fenicotteri rosa, scendere basso sull’acqua. Poco poco, sono ancora un pollo, certo.
Ora che il più è fatto sono più tranquillo. Ma pareggia i conti l’esigenza di sbrigarmi, è gennaio e non ho ancora molta luce a disposizione. Però ho volato sul mare: anche se non c’entra nulla questo mi tranquillizza. Le paure non sono brave insegnanti, se i numeri ci sono allora si può stare tranquilli. E i numeri dicevano che io avevo il tempo di arrivare alla meta giusto giusto.
Sud. Dopo la palude ecco apparire lontano davanti a me il delta di Comacchio. Devo passargli a ovest, costeggiarlo. Facile. Se dalla sua costa ovest seguo le strade o i corsi d’acqua che vanno verso sud trovo Alfonsine. Da lì metto rotta dritta a ovest e arrivo alla meta, Lyra 34, l’aviosuperficie di 450 metri che mi ospiterà. Il sole è basso, il paesaggio diventa ombra, il motore continua a tranquillizzarmi col suo canto.
Pian piano ritrovo i paesaggi che avevo visto in volo con il Tiger Moth di Mila quando mi insegnava ad atterrare con una Signora dei cieli.
Comincia a essere tardi, il sole è all’orizzonte e io sono ancora su Alfonsine, poi il sole sparisce e mentre la luce cala ecco i riferimenti, ecco il campo! Atterraggio, e mentre mi approssimo alla pista ci sono due piloti in me, uno è quello sicuro di sé e felice di essere al termine di un’impresa tanto grandiosa, l’altro quello insicuro e preoccupato perché è il mio primo atterraggio col mio mezzo troppo veloce rispetto al Tiger Moth su quella piccola pista, e la luce è appena sufficiente. Due piloti che conducono lo stesso mezzo fanno danni. Quindi l’atterraggio non è il migliore del mondo, il biciclo rimbalza come un canguro, poi si ferma entro i limiti della pista deserta. Ho le ruote a terra, sono fermo, sono a Lyra 34. Sorrido sin quanto i muscoli me lo permettono.
Giro il muso del biplano per tornare agli hangar, anche qui nessun testimone, nessuna fotografia. Fermo Greta davanti all’hangar di Mila, che arriverà a breve e ospiterà per i mesi successivi Greta accanto al suo Tigrone. Fermo il motore, per oggi è tutto, restano gli abbracci con Mila per aver coronato insieme un sogno grazie al suo insostituibile aiuto, la cena con un vino rosso per festeggiare, il sonno che dopo tanta attenzione ed emozioni arriverà come un’onda. Ma questo dopo. Ora resto nella cabina del biplano fermo davanti all’hangar senza smettere di sorridere, lento slaccio il caschetto, tolgo le cinte di sicurezza, ammiro il crepuscolo tra le due semiali e i loro tiranti. Grazie Greta. Grazie per avermi mostrato cosa possiamo essere, che vita possiamo desiderare.
Fuori della cabina, un piede sull’ala, poi in terra. Una carezza a Greta. E quel gesto d’affetto spontaneo dopo aver costeggiato l’Italia mi fa pensare che sto smettendo di essere uno che ha acquistato un biplano e sto iniziando a trasformarmi davvero in un pilota di biplano.

domenica 15 marzo 2020

15. Il punto

Lo so, dovrei proprio parlare dei motori. Il fatto è che per quanto ormai abbia una discreta infarinatura non ne so mai abbastanza e quindi rimando questo argomento al momento in cui potrò dire cose meno da sentito dire e più da esperienza diretta.

Passando quindi ad argomenti meno cocenti ecco quello a cui non si pensa: il punto.
E sì, perché esiste un punto.
Esiste per tutti gli aerei ma il punto dei biplani è davvero notevole.

Mi spiego: si studia per diventare piloti di biplano, e si hanno mille compagnie. Allievi come noi, istruttori, altri piloti. Incoraggiamenti, consigli, critiche costruttive o meno.
Poi si cerca un biplano. E ci sono amici apparsi magicamente che ci danno una mano, contatti nuovi con cui condividere aspettative e delusioni, meccanici e tecnici con i loro istruttivi punti di vista.
Quindi ecco l'hangar, che è più un salotto che un condominio, dove non si è mai soli.

Ma alla fine arriva quel punto. Quando si acquista quello specifico biplano con quella unica configurazione, quando si vola, quando si pensa a tutta la strada che ci ha portato esattamente sino lì.
È il punto che arriva dopo il decollo, dopo che la radio fa silenzio e le ruote sono staccate da terra e stiamo giocando con la potenza e la cloche: è il punto in cui anche se ci fosse un passeggero quel pensiero arriverebbe comunque. "Ora sono solo. Ora devo cavarmela da solo. Non c'è nessuno che possa aiutarmi, che possa vivere questa esperienza insieme a me, darmi un consiglio o solo una pacca sulla spalla."
La certezza che qualunque cosa accada da lì all'atterraggio ci sarai solo tu ad affrontarla, che qualsiasi gioia tu possa provare sarà solo tua. Il passeggero o il compagno in formazione, se ci sono, vivranno il loro volo diverso dal tuo, avranno i loro problemi e le loro gioie diverse dalle tue.
Questo fa sentire soli. No, non è la frase giusta: questo fa sentire felicemente soli. Perché ci sono purtroppo emozioni tanto grandi che non possono essere condivise e il volo in biplano fa parte di queste. Non solo è impossibile da condividere, è pure impossibile da raccontare: Richard Bach ci è riuscito prendendolo spesso come simbolo della conquista di una Verità superiore, di una libertà e ricerca e coraggio di decollare che non era mai stato raccontato prima. E verità, libertà, ricerca e coraggio sono concetti noti e positivi che quindi ci aiutano a capire cosa si prova volando tra ali e tiranti. Ma da qui a spiegare la gioia di quel volo ci passa un mondo.

Sabato scorso sono stato immerso in un tramonto per 42 minuti. Bel numero. Gridavo cose sceme come "Yabadabadù!" e inclinavo le ali una volta a destra e una a sinistra facendo ogni volta girotondi completi col mondo terribilmente obliquo davanti a me come un ubriaco di notte la cui testa vuole tornare a casa ma le gambe lo portano a passi di danza verso un altro bar. E come lui una volta tramontato il sole ho annunciato via radio il mio atterraggio, "Santa Severa, India Alfa 1 3 4 vira in base destra per 3... No, scusate, resto ancora su" e via a fare un giro (un altro!) intorno al castello sulla spiaggia appena illuminato da spade di luci, a godere dei suoi riflessi sul mare. E come fai a descrivere cosa si prova? 
Una volta atterrato - era così tardi che il gestore della pista suggeriva che se fossi restato ancora qualche minuto in volo avrebbero dovuto illuminare la pista con i fari delle macchine per permettermi di atterrare e non scherzava poi molto - dopo essermi tolto lentamente il caschetto di cuoio sono rimasto dentro l'abitacolo a godere degli odori, gli scricchiolii, il calore, il silenzio improvviso dentro le cuffie e fuori. Per smaltire le emozioni, per rendermi conto che davvero, davvero io avevo vissuto quel volo, quella esperienza così incredibile e indescrivibile. Appena 42 minuti.

Ecco, si è soli anche in questo: nel non poter descrivere ciò che si vive. Sì, questo vale per tutto, ma quando si ha una esperienza tanto forte come quella del volo in biplano è dura tenersela per sé. Ma come uso dire, o chi ti ascolta non è un pilota allora non potrà mai capire cosa stai dicendo, o chi ti ascolta è un pilota allora è inutile che glielo descrivi: già lo sa.

Solitudine quindi. Annunciata da un punto specifico: un attimo dopo il decollo. Da lì all'atterraggio tutto ciò che accade ti appartiene ed è solo tuo, dovrai custodirlo senza poterlo davvero condividere con nessuno, gioie e problemi. Dovrai farti carico di risolvere ogni cosa con la tua esperienza e questo è un compito che cambia il carattere, che ti rende diverso. Ti fa capire che non ne sai mai abbastanza ma che devi cavartela da solo con quel non abbastanza, e che te la caverai.
Ma oltre alla solitudine quel punto ti porta una consapevolezza opposta: che fai parte di un gruppo di persone con una identità tanto forte da poterli considerare quasi fratelli, alcuni più che fratelli. Persone che vivono ognuna il proprio volo ma poi a terra basta uno sguardo per capire che anche l'altro è stato felice quanto te e come te e non rinuncerebbe davvero al volo appena fatto, non vorrebbe essere in nessuna altra parte che non sia lì a volare. Un gruppo di persone che, e parlo per esperienza, considera davvero prioritario aiutare un altro pilota o solo accoglierlo come se si trattasse di un vecchio amico anche se è la prima volta che lo si incontra.
Strano come una esperienza di solitudine tanto forte, tanto personale e formativa, possa generare uno dei più forti legami di gruppo che abbia conosciuto. Inaspettatamente bello, una delle cose che nessuno scrive sui manuali e che da sola valgono la pena di conoscere il mondo di questi grandiosi mezzi volanti e delle persone che dedicano loro la vita.

sabato 7 marzo 2020

14. Imparare un biplano

Mila Misek, Tiger Moth ULM e Gianni Sarti

Continuiamo la storia.
Stavo usando tutto il mio tempo per aumentare l'affidabilità e la conoscenza di Melody, il mio Fisher 404, e mi preoccupavo di come avrei imparato a pilotarlo. In più non potevo ancora volarci, non c'era l'assicurazione. Per fare l'assicurazione però avrei dovuto prima immatricolarlo. E per immatricolarlo dovevo decidere se lasciare il motore a due tempi che c'era (funzionante bene ma vecchio, ottimo per i giri campo senza allontanarsi troppo) o cambiarlo con un quattro tempi che mi avrebbe permesso di volare come desideravo, per lunghi tragitti, zingarando tra le aviosuperfici d'Italia.
Volevo imparare a pilotarlo ma al momento non potevo nemmeno provarlo.

Ovviamente il corso di volo l'avevo fatto su un mezzo triciclo e piloti e istruttori tutto quello che mi avevano detto dei mezzi bicicli come i biplani era che erano davvero ma davvero difficili. L'istruttore più costruttivo mi disse che avrei dovuto dimenticare tutto su atterraggio e decollo e ricominciare da capo con tutte le difficoltà di chi deve sovrascrivere qualcosa di appreso sino a farlo diventare automatico con qualcosa di totalmente nuovo e diverso.
Nessun istruttore però, contrariamente alle promesse di quando mi ero iscritto alla scuola di volo, era in grado di insegnarmi a pilotare un biciclo. O non c'erano bicicli o non c'erano istruttori che ci sapessero volare. Lo so, bisogna essere cocciuti per non arrendersi, non ho mai detto il contrario. :)
C'era, e credo ci sia ancora, una scuola per imparare a pilotare bicicli. È a Brescia, a Torbole Casaglia, si trova su www.volobrescia.it e hanno dei magnifici Zlin Savage  biciclo che però sono aerei con caratteristiche particolari visto che decollano e atterrano in pochissimo spazio in luoghi dove i normali aerei potrebbero rompere i carrelli. Il volo Bush flying nasce nei grandi spazi del Nord America, del Canada e dell'Australia per permettere ai mandriani di raggiungere il bestiame lontano da casa e tornare in tempi che il cavallo si sogna, atterrando nei campi e nei letti dei fiumi. Sì, è l'evoluzione avio dei cowboy e anche fosse solo per questo trovo la cosa incredibilmente affascinante. Però Brescia non è proprio dietro l'angolo e la cifra richiesta per il corso era, beh, significativa. Non c'era un'altra soluzione?

La fortuna è un'ottima alternativa.
Cercavo informazioni sul mio Fisher 404 in rete e trovai il racconto di un pilota che aveva fondato il Biplano Club Europa. Aveva anche lui un 404 con cui aveva volato una enormità di ore e per di più aveva un motore quattro tempi proprio come lo cercavo io: un Aero Vee, ossia un Volkswagen avionizzato. Era buffo vedere la sua foto: il 404 è un aereo minuscolo come ho detto mentre il pilota era altissimo. Pensarlo dentro quel giocattolo mi faceva venire in mente un vecchissimo documentario sugli esquimesi, era in bianco e nero e senza sonoro, e alla prima scena si vede una canoa attraccare su una banchina e da lì uscire sfilandosi dal foro sulla canoa il marinaio che la conduceva con la pagaia, e poi dallo stesso foro usciva la moglie con un figlio piccolo in braccio, quindi un altro figlio più grande, un terzo e infine addirittura il grosso cane. Conoscete la cabina del dottor Who o la borsa di Mary Poppins? Ecco.
Quell'aviatore poteva consigliarmi. Gli scrissi, anche perché avevo appena letto il suo racconto di come portò a casa il suo secondo biplano, un meraviglioso Tiger Moth riprodotto fedelmente in scala 1:1 ma ultraleggero. Aveva attraversato la Germania affrontando i problemi meteo, meccanici e umani (ogni pilota è da solo passato quel punto dopo il decollo, giusto? OK, lo vedremo nel prossimo post), aveva attraversato le Alpi descrivendo le emozioni che una cosa tanto grande dona, ed era arrivato vicino Ferrara. Il tutto dopo aver passato troppo poco tempo a conoscere il mezzo, se ricordo bene si parla di mezz'ora per il passaggio macchina, per esigenze tecniche.
Insomma scrissi a questo eccezionale aviatore. Mila Misek. Email porta email e come vedremo la solidarietà tra piloti di biplano - non importa che lo si sia già o che lo si cerchi di diventare - è scattata.
"Vieni qui un fine settimana, facciamo un po' di decolli e atterraggi insieme se vuoi".

Ora facciamo delle precisazioni.

Precisazione n. 1: ma avete presente il Tiger Moth? Negli anni '30 tra tanti altri c'era la tripletta magica dei biplani biposto. Il Boeing Stearman, grosso ed esuberante, con un motore in grado di trainare una nave. Americano ovviamente. La magnificenza indiscussa, il biplano che avrebbe disegnato Walt Disney in un momento di serietà. Poi il Bücker Jungmann. Efficienza, linee severe ed essenziali, carrello simile agli artigli di un'aquila. Tedeschissimo, l'eleganza della linea minimalista e funzionale. Infine l'inglese Tiger Moth, niente possenza né linea funzionale ma solo eleganza romantica, non c'era nulla da dimostrare oltre il fatto che volare è bello e quindi i biplani che permettevano di farlo dovevano essere emozione pura. È il biplano usato nei film come "Il paziente inglese" e "La mia Africa" per capirci. Film di storie d'amore, il Tiger Moth della De Havilland non ha rivali. E Mila mi proponeva di imparare su un Tiger Moth. Wow. Vincere alla lotteria non mi fa sentire più fortunato.

Precisazione n. 2: ogni pilota è giustamente geloso del proprio mezzo. C'è chi non porta mai i passeggeri anche se ha un biposto. È corretto, il rapporto che si ha con il proprio aereo è qualcosa di unico, ognuno affida la propria vita all'altro, pilota e aereo. E Mila metteva da parte la sua gelosia, la sua preoccupazione per il proprio magnifico biplano solo per aiutare un aspirante pilota a capire e vincere le proprie paure. Su un Tiger Moth!

Precisazione n. 3: quando si impara ad atterrare inevitabilmente si rischia di fare atterraggi pesanti. Non così pesanti da rompere l'aereo (si spera!) ma abbastanza pesanti che l'aereo se potesse parlare direbbe "E stacci attento! Mi fai male! Aio!" e Mila mi concedeva il rischio di far del male (precisazione n. 3) al suo biplano (precisazione n. 2) Tiger Moth (precisazione n. 1).
Non credevo capitassero cose simili.

Incontro Mila a una manifestazione. Conosco il suo Tiger Moth, Tigrone. Lui il 404 l'ha venduto quando ha acquistato Tigrone. Ma tanto è ovvio che imparare sul 404 che è monoposto è impossibile, devo farlo su un biposto. Faccio il primo volo con Mila e per la prima volta capisco cosa significhi volare in biplano. Beh no: no, sembrava di sì ma col tempo ho imparato che quel primo volo in cui ero distratto da mille cose e tutte cose sbagliate, per quanto sia apparso strabiliante non mi ha affatto mostrato la gioia vera del volo. C'era molto di più.
Fine settimana da Mila. Pista di 450 metri. Tanta paura, tutti gli istruttori nella mia memoria ripetevano quanto fosse difficile governare un biciclo, quanto si possa facilmente distruggere il biplano. Mila li ignorava, mi mostrava la facilità. "Eh grazie, lo fa lui che è esperto". Quindi la prima fase è stata distruggere le paure, capire che è possibile farlo. Eseguivamo sette tentativi, sette circuiti con sette atterraggi e decolli senza fermarsi (touch and go se ricordi quanto scrissi qualche post fa) e poi una pausa per rilassare e memorizzare. Poi altri sette. E altri sette. I primi li eseguiva Mila, poi li eseguivamo insieme, poi mi guidava solo quando necessario, infine eccomi autonomo.
Ora se decollare è di una semplicità abbastanza banale (dai manetta e aspetti, o poco più, e il biplano fa tutto da solo purché tu lo tenga in pista), se volare con le resistenze tipiche di questi mezzi era molto diverso dal volare con gli aerei di scuola, ecco che atterrare era davvero tutta un'altra cosa. Mi ha aiutato la tecnica di atterraggio di Mila: il biscotto.
A scuola di volo si impara ad atterrare disegnando angoli retti. Si va paralleli alla pista come una macchina percorre la strada parallela al marciapiedi, si gira a 90 gradi verso la pista, si gira di altri 90 gradi fino a essere allineati con lei e si scende. Come disegnare una estremità di un rettangolo. Questo è efficiente, ha punti precisi, ma gli angoli impongono virate a velocità basse e sono un punto debole. Un tempo invece i biplani usavano la tecnica più sicura: si va paralleli alla pista come sopra, poi anziché fare due curve da 90 gradi si disegna un unico semicerchio, una grande curva di 180 gradi, durante la quale si scende e alla fine ci si trova direttamente in linea della pista, in prossimità della pista. Così atterravano i biplani. La curva più larga è più sicura alle basse velocità, la si può stringere o allargare per centrare meglio la pista, è più istintiva ed elegante. Essendo questa tecnica una tecnica differente da quella con cui atterravo con l'aereo scuola ecco che non stavo sovrascrivendo ciò che sapevo ma stavo imparando qualcosa di differente e questo ha reso tutto più semplice.

Vogliamo parlare un po' dell'atterraggio?
Scendendo la visuale è totalmente nascosta dal grosso muso del mezzo, non si guarda davanti ma a lato. Per vedere la pista si può abbassare un attimo la prua così da valutare l'allineamento ma dopo un po' si impara a capire quanto si è in rotta osservando solo i cinesini di un lato, cioè i segnapista bianchi che stanno a intervalli ai lati della pista. Si punta la testata pista e un attimo prima di piantarci le ruote si richiama appena la cloche e si comincia a galleggiare paralleli al suolo per smaltire velocità. Se sei troppo alto poi ti aspetta una caduta davvero poco carina, se sei troppo basso le ruote toccano e si rimbalza. Mentre devi decidere se sei o no a mezzo metro da terra tocca continuare a controllare l'allineamento con i cinesini da un lato, da un lato solo, altrimenti ci si sbaglia facilmente. Terribile, giusto? Ma no, parcheggiare una macchina a Roma è di sicuro più complesso eppure lo si potrebbe fare recitando la ricetta della carbonara senza sbagliare. Poi si tocca terra: l'assetto dell'aereo deve essere cabrato, col muso un po' in alto, così l'aria lo frena e la corsa sarà più breve. Ma qui un piccolo errore crea rimbalzi, le ruote davanti toccano, la coda scendendo fa puntare la prua in alto così il biplano tenta di decollare di nuovo ma non ha la spinta per farlo quindi torna giù, la coda scende appena le ruote toccano terra e lui torna a rimbalzare... Ci vuole un po' di allenamento per evitarlo e io sinceramente ancora non ne ho abbastanza. Ma diciamo che un paio di cangurate fanno parte del gioco, ci stanno, basta che siano piccoline e non ci portino fuori della nostra retta al centro della pista.
Una volta a terra l'aereo vorrebbe avanzare ma le ruote fanno resistenza, così cerca di passare avanti alle proprie ruote, girandosi in un testacoda. Detta così è orrenda, vero? Ma no, basta premere alternativamente i pedali poco poco per spezzare sul nascere qualsiasi cattivo comportamento, e si procede tranquilli e dritti.
È importante stare in guardia sino a quando l'aereo non è fermo e l'elica ferma, basta un attimo per finire in un canaletto a bordo pista e ne so qualcosa. :)
E piano piano Mila mi ha insegnato tutto questo. Che pazienza.

Insomma sono stato fortunato. Ho trovato un pilota unico a cui ora sono legato come a un fratello, un biplano incredibile e una pista difficile (450 metri sono pochini per imparare, fidati) al cui confronto ogni altra pista sarebbe stata una passeggiata.

Ma chi non ha tanta fortuna come può imparare a pilotare un biciclo?
La scuola di Brescia sembra un'ottima occasione, ci sarei andato se non avessi trovato Mila. Gli amici con i bicicli possono darci una infarinatura ma sinceramente ci vuole del tempo per imparare a gestire l'atterraggio con questi mezzi che nascondono la pista sotto il muso e a terra tendono a fare piroette. Una volta imparata la tecnica tutto diventa semplice e non si capisce il motivo per cui altri trovino il biciclo difficile ma la fase del dimenticare come si pilota il banale triciclo e incamerare gli automatismi per condurre un biciclo può avere bisogno del suo tempo. Quindi usare l'aereo di un amico è chiedere davvero troppo. Per questo parlando di scuole di volo consigliavo di trovarne una che insegnasse direttamente su un biciclo. Sono pochissime, pochi allievi vogliono imparare i bicicli (presente!) ma magari se ne trova una più vicina di Brescia.

Torniamo alla storia: dopo aver imparato e mentre Melody ancora finiva i suoi controlli prima dell'immatricolazione, cercando il motore quattro tempi Mila mi parlò di un biplano in vendita col motore quattro tempi a Gorizia. "Non c'è nulla da fare, è perfetto, lo prendi e lo voli". L'abbiamo già sentita, vero? Ma andai a vederlo. La sera stessa avevo dato l'anticipo per Greta. Avevo trovato il motore quattro tempi che cercavo. Con tutto un biplano intorno. :)

mercoledì 16 ottobre 2019

13. Portiamolo a casa

E torniamo a noi.
Stavolta andiamo un po’ avanti con la storia. mi serve per presentare gli argomenti utili a chi sta pensando che in fin dei conti non è così assurda l’idea di vedersi dentro il proprio biplano.

Così eravamo arrivati al momento in cui avevo un tubi e tela bianco e arancione. Un aereo biciclo e nessuno in grado di darmi una mano a imparare a pilotarlo. Beh in realtà ancora c’erano tante promesse: ma sì poi ti faccio vedere io, ma certo un giorno voliamo insieme, ma dai conosco uno che ti mette a disposizione il suo biciclo per imparare. Bello bello. Tutte chiacchiere ma ancora non lo sapevo.
Nel momento in cui – toh! – appare l’annuncio del piccolo biplano monoposto venduto esattamente alla cifra che avevo in tasca non mi preoccupo più del fatto che da un anno ho un tubi e tela che ha volato pochissimo perché ancora non so atterrare con un biciclo, ho le chiacchiere che mi promettono che presto imparerò: quindi si parte subito a vedere il biplano in Sicilia. Con un tecnico che aveva la mia fiducia ovviamente e quindi mi sono fidato del suo “va benissimo, compralo e volalo”.  Spoiler: lo sappiamo, vero, che poi ci ho dovuto lavorare mesi per metterlo in sicurezza, sì? Sto imparando a dosare con molta tirchieria la fiducia ai tecnici. Parliamone a fine post.

Abbiamo già detto che un biplano che ci piace troppo è un acquisto azzardato perché presi dalla passione non vedremo la realtà. E quel Fisher 404 mi piaceva davvero troppo. Sembrava l’aereo di Topolino col carciofo del paracadute sopra, un giocattolone colorato. Mi piaceeeeva.

Così è venuto il momento di saldare e portare il mezzo a Roma.
Nella mia mente era logico: lo si porta in volo. L’aereo vola, quindi si va in volo. Fosse stata una barca l’avrei portata navigando, no?
Sbagliato. Lo stesso ex proprietario me l’ha sconsigliato. Così come ora lo sconsiglierei a chiunque.
Perché?
Perché sarebbe il primo volo. Un conto è passare un paio di settimane sul posto e imparare a volarlo con calma, imparare a conoscerlo, e poi si può pensare al volo.
Ma anche così non lo consiglierei: un aereo di seconda mano, come abbiamo visto, ha per principio una serie di problemi da sistemare prima di essere reputato affidabile. Perciò non basta saperlo pilotare bene, e no, bisogna passarlo tutto al lanternino insieme a qualcuno davvero in gamba per poter dire “ecco, ora è affidabile”.
Io non sapevo pilotarlo, nemmeno riuscivo ad atterrare con un biciclo senza sfasciare un carrello, e volevo portare un aereo mai controllato lungo una rotta che non conoscevo per mezza Italia: hehee, l’ottimismo è un conto, qui siamo nell’idiozia.

Allora: come si porta un aereo?
Sì, perché i biplani sono così pochi che il giorno in cui troverai il tuo biplano in vendita quasi sicuramente sarà davvero lontano da casa tua.

Il vantaggio del monoposto è innegabile: è piccolo.
Ho noleggiato un furgone Iveco Daily Gran Volume, ho ringraziato qualunquecosasia di avere un eccezionale amico disponibile a venire con me e in possesso di una lista di patenti mai vista prima, e via per la Sicilia. Un giorno a smontare le ali e i piani di coda del biplano segnando con scotch di carta ogni cosa, poi caricare il tutto nel furgone insieme a polistirolo e coperte e scoprire che ci entra per pochi centimetri, e infine via verso Roma!
Il momento bello è stato quando eravamo sullo Stretto. C’era un traghetto, nel traghetto un furgone, nel furgone un aereo. Non so perché ma questa cosa di scatole cinesi mi piace da matti.
A Roma: scaricare, consegnare il furgone, rimontare. Totale: tre giorni, mille euro tra noleggio, benzina, pernotto e cibo. Posso dire di essere stato fortunato.

Ma se l’aereo fosse stato biposto?
Ecco, allora sarebbe stato un problema.
Esistono carrelli aperti per le barche o altro da agganciare dietro la macchina (una macchina con un buon motore ovviamente) ottimi per caricarci su tutto l’aereo, con le ali smontate e appoggiate lateralmente alla fusoliera, ma trovare un’anima pia che abbia il carrello e ce lo metta a disposizione è impossibile. Ovviamente una volta trasportato il mezzo ci sarà una folla di persone che diranno “Ma caspita, me lo potevi dire che ti prestavo io il carrello!” e questo non fa bene all’umore.

Se l’aereo è in condizioni di volare si può cercare un pilota esperto che per una cifra non eccessiva si prenda la briga di portarlo a destinazione in volo. Molti fanno così. Ma questa per me è decisamente l’ultima delle soluzioni, per due incontrovertibili motivi: primo, l’aereo appena acquistato va comunque controllato tutto ma proprio tutto prima di fargli fare un volo impegnativo, alla faccia di quello che dice il proprietario, altrimenti il nostro pilota esperto rischia la vita al posto nostro. Secondo, se l’aereo viene ritenuto idoneo a volare allora davvero qualcun altro, per di più pagato da me, deve prendersi il piacere unico del primo vero volo di trasferimento, dell’occasione di conoscere il mezzo mentre lo si accompagna alla sua nuova casa? Scherziamo? Il mio amico Mila ancora ricorda il suo volo più bello: quando ha portato il suo mezzo appena comprato e rimesso a posto dalla Germania sino in Emilia Romagna. Io ricordo il mio volo perfetto: quando ho portato per la prima volta il mio secondo biplano dal Veneto, dove era stato mesi sotto l’occhio di un tecnico mentre io imparavo a conoscerlo in volo, sino al Lazio.

C’è una sola eccezione alla regola del non far volare ad altri il proprio aereo per portarlo a casa: quando è l’ex proprietario a dire “te lo porto io”. In tal caso lui lo conosce, ci ha volato, sa bene lo stato di sicurezza dell’aereo e il fatto di portarlo lui in volo è la dimostrazione che l’aereo è davvero a posto come dice. No, tranquillo, poi ci saranno senza dubbio altre cose che non vanno quando comincerai a guardarlo da vicino, funziona così.
Io quando poi ho venduto il piccolo Fisher siciliano, all’acquirente che voleva smontarlo e caricarlo su un furgone per portarlo a Grosseto ho detto che sarei stato felice di portarglielo io in volo, mi fidavo del mio aereo e non avevo problemi, anzi, mi sarei goduto l’ultimo bellissimo viaggio. Ho insistito perché mi saldasse l’aereo solo dopo la consegna per correttezza perché in effetti ogni volo ha i suoi rischi e se avessi avuto problemi nel recapitarglielo poi si sarebbe trovato ad aver pagato un aereo danneggiato. Ma tanto mi fidavo davvero molto del mio aereo, aveva avuto gli ultimi controlli del tecnico che avevo portato in Sicilia… Ach, tecnico che per la fretta oltre a varie mancanze di attenzione regolò in maniera asimmetrica gli alettoni. C’era turbolenza e vento e continuavo a dare la colpa dell’assetto di volo un po’ storto al meteo, chi avrebbe pensato che il tecnico avesse fatto un errore così idiota solo per la fretta di farmi partire, che gli serviva liberare il posto nella sua officina. 

Torniamo al problema del trasporto.
La soluzione più piacevole quindi sarebbe quella di prendersi del tempo, portare un tecnico per controllare lo stato del mezzo e un meccanico per accertarsi dell’efficienza del motore, imparare a conoscere il mezzo con voli progressivi e infine staccare le ruote e affrontare il volo verso casa magari con un amico che ci affianca col suo aereo. Ma questa è la soluzione più difficile da realizzare.
La soluzione più pratica è quella di convincere l’ex proprietario a fare lui il trasporto in volo, dicendogli che visto che ha ripetuto mille volte che l’aereo è a posto e pronto a volare, questa è l’occasione per dimostrarlo. Però se si ha a che fare con un motore a due tempi le cose cambiano, molte persone non vogliono fare viaggi lunghi col due tempi e lo stesso ex proprietario potrebbe essere dispostissimo a stare sei ore in volo sopra la sua aviosuperficie ma negarvi l’idea di affrontare un’ora e mezza di viaggio per portarlo lontano. 

Comunque il piccolo biplano, ribattezzato Melody da mia figlia, arrivò via terra alla sua nuova casa a Sutri e ancora ho un video del suo uscire dal furgone e venire montato. Un giocattolo.

Dovrei parlare un attimo dei tecnici.
La cosa più importante da sapere è di non sapere. E se non sai devi rivolgerti a chi sa. Quindi un tecnico. Uno che conosce i materiali, le forme, l’aerodinamica, le riparazioni, i punti deboli.
Nell’Aviazione Generale, dove tutto è certificato e standardizzato da procedure, i tecnici sono divinità e le loro parcelle sono le parcelle di divinità.
Nel VDS, dove al confronto tutto sembra essere fatto per gioco, i tecnici quasi sempre sono persone che per la legge sono tutt’altro. Disoccupati, impiegati, persone che non hanno studiato affatto per fare quel mestiere ma che pian piano ci si sono trovate e ogni bacino di volo ha il suo riferimento, spesso senza concorrenza.
Frequentemente il lavoro di un tecnico viene criticato da un altro tecnico, “guarda quel pazzo cosa ha fatto al tuo aereo, ma vuole farti precipitare?” e chi non sa rimane esterrefatto.
Scegliere un buon tecnico è più importante che scegliere un buon istruttore.
Evidentemente il tecnico di cui mi ero fidato, e che comunque è portato sugli allori da altri piloti, consigliandomi frettolosamente l’acquisto del Fisher senza valutare davvero il mezzo e facendomi passare poi l’inferno per le riparazioni che gli avevo chiesto sino a mettermi in difficoltà costringendomi a volare via dalla sua officina con l’aereo non collaudato in un giorno di meteo avverso e con gli alettoni montati male è stato un tecnico discutibile.

Non ho una formula per capire se un tecnico meriti fiducia. O meglio non l’avevo sino a un mese fa. Quando mi capitò una cosa che da sola merita un post e grazie a questo evento inaspettato ho conosciuto un meccanico certificato, tecnico pignolo come tutti i tecnici dovrebbero essere, che come unico mestiere lavora sugli aerei; e ho visto i mezzi con cui vola, perché un tecnico che non vola col suo mezzo è come un barista che non beve caffè: diffidane. Ho visto che quando si trova di fronte a un aereo prima cerca di capirlo, poi affronta il problema con l’anamnesi, fa test comparativi che inducono a ragionamenti, formula una diagnosi e da lì alla terapia precisa il passo è breve. Un dottore insomma. Uno che pensa a quello che fa e fa quello che pensa. E nel frattempo spara battute. Sarò strano io ma considero chi spara battute più intelligente degli altri: anziché ponderare solo il lato serio della cosa apre la mente e osserva anche gli altri aspetti non logici, perciò con una tale inclinazione sarà più facile per lui elaborare soluzioni non ovvie.

Quindi un buon tecnico, o un buon meccanico, secondo me deve farlo a tempo pieno, deve avere un furgoncino da lavoro che gli permetta di portare i suoi strumenti dove serve la sua opera, deve volare, deve avere mezzi volanti che siano il suo biglietto da visita, deve ascoltare e ragionare e fare battute e infine deve perdere tempo con particolari dell’aereo non inerenti al problema che sta riparando. Sì, perché non perde tempo solo chi fa un lavoro per soldi, mentre il fermarsi davanti all’aereo a esaminarlo come fosse una pin up oltre a indicare la necessaria pausa per il ragionamento (esiste una parola ebraica, Selah, che indica la pausa per riflettere) indica anche che si prova passione per quello che si fa. Il buon tecnico inoltre dice “Aspetta, ti aiuto io” se ti vede in difficoltà, non attende che lo chiami col prezzario in mano. Ultimo: il buon tecnico dice di no quando lo ritiene opportuno, non accetta tutti i lavori, e un tecnico davvero in gamba rifiuta i lavori che non lo appassionano. Ecco, se trovi una persona così fagli un monumento.
Ebbene sì io l’ho trovata, dovrò attraversare mezza Italia per far fare la manutenzione al mio biplano attuale ma santo cielo sarà l’occasione per sgranchire le ali.

E ora che mi sono inimicato il 90% dei tecnici passiamo al prossimo argomento.