Avevo scritto e pubblicato la storia del post precedente sul mio incontro con Greta, la Signora tedesca. E subito dopo ecco Alessandro, senza aver letto cosa avevo pubblicato, che mi manda la storia del suo incontro con – beh non sappiamo ancora il suo nome ma è il biplano che lo aspettava. La sensazione è quella: quando ti metti in testa che nel tuo futuro ci sarà un biplano, nel tuo futuro ecco un biplano iniziare ad aspettarti. A quel punto se sei in gamba sai che il gioco è fatto: il biplano è tuo, ce l'hai, solo che anziché averlo distante un certo numero di chilometri da casa ce l'hai distante un certo lasso di tempo da te. Ma poi quel momento arriva e lui ti aspetta lì, ti ha sempre aspettato, sto diventando pericolosamente metafisico oh sciagura, tutta la strada che hai fatto aveva il solo scopo di portarti in quel punto, in quel momento, a carezzare il tuo biplano – che tu ancora non sai che sia il tuo biplano ma lui ha pazienza e te lo perdona, sa che con gli umani funziona così – e in quel punto finalmente puoi iniziare a vivere.
Sono eccessivo? Eh. Vallo a dire a un pilota di biplano. Sai che ti dirà? "Sì, Gianni è eccessivo", ovvio. Però poi se si ferma un attimo a pensare a come sarebbe stata la sua vita se non fosse passato per quell'incontro col proprio biplano lo vedi impallidire.
Ma torniamo ad Alessandro. Ha incontrato il suo biplano e l'ha voluto raccontare. In modo originale, con disquisizioni a guarnire il racconto, con invenzioni narrative e richiami nascosti nel testo. E come si fa a non inserirlo qui nel blog? Grazie Ale per avermelo permesso!
Una nota a più pagina: l'incontro di Alessandro col suo compagno di volo è avvenuto subito prima degli arresti domiciliari in cui è caduta l'Italia per la quarantena di cui mi sforzo di non dire nulla per diplomazia. Non so se vi rendete conto di quanto questo sia uno scherzo del fato per un pilota. Bastardo d'un fato. Trovare il proprio biplano dopo anni di ricerca ed essere costretto a chiudersi in casa lontano da lui per tre mesi nel momento in cui sai che c'è, sai che è lì, sai che è tuo. No comment. Alessandro, hai tutta la mia ammirazione per lo stoicismo con cui hai affrontato questo momento. Mi spiace per i tuoi vicini che non hanno dormito per i tuoi continui ululati notturni ma hai il mio appoggio.
E ora lascio la parola al mio amico Alessandro Merlini che è un pilota di biplani da molto prima di toccare un biplano.
Perché un biplano...?
All’apparenza è solo una delle tante curiosità che riguardano il Volo, eppure rappresenta un paradosso, uno di quegli interrogativi troppo semplici per essere innocui, troppo diretti per ricevere una risposta univoca e risolutiva da parte di coloro che a me piace definire “gli unici pazzi ad essere sani di mente”. Chiamiamoli pure individui affetti da biplanite cronica acuta. Io sono uno di loro.
A pensarci bene tale domanda può essere paragonata a uno di quei puri e ingenui «Perché?» che puoi aspettarti da un bambino.
Non sono padre e forse non lo sarò mai, ma devo ammettere che sarebbe proprio bello se un giorno mio figlio me lo chiedesse.
Mi piace immaginarlo mentre attende la risposta, guardando con l’aria assorta tipica dei bimbi quella creatura con un’ala di troppo, il visetto illuminato dal sole pomeridiano come il muso dell’aereo, i capelli lievemente mossi da un alito di vento primaverile. È la prima volta che lo vede da quando ha ricevuto il dono e la maledizione della parola. Temo che d’ora in avanti possa sentirsi obbligato a dare una motivazione verbale e logica a ciò che prova, a sforzarsi di analizzare le sue emozioni ogni volta che avrà l’istinto di fare la bocca a cuoricino, a dover giustificare con una didascalia il fermo immagine dello stupore. Percepisco ciò come un grave pericolo da quando ho imparato a mie spese cosa significhi ricorrere al raziocinio per tentare a tutti i costi di arginare le proprie passioni. Mentre all’Università acquisivo con fatica la necessaria forma mentis, violentando le mie naturali inclinazioni, non mi rendevo conto che stavo costruendo intorno a me una gabbia dorata. Studiando il mondo dall’interno di questa prigione per spiriti liberi, edificata con regole preconfezionate e universalmente valide, ho imparato una lezione elementare: il modo più efficace di rispondere a una domanda del tipo «Perché un biplano…?!» è semplicemente guardare negli occhi chi la pone; la luce nei tuoi farà gran parte del lavoro sporco. Non credo sia possibile replicare in molti altri modi, per lo meno non altrettanto trasparenti e immediati. Così come è impensabile rivelare in cosa consiste quel sorriso interiore che ogni pilota sente distintamente di avere quando è nel suo elemento, quel sorriso dell’anima invisibile a un osservatore esterno che abbia i piedi troppo per terra. Sarebbe un po’ come descrivere l’aspetto degli angeli. Io non ho fede, ma credo nella spiritualità e preferisco provocarli andando in aria, nell’attesa che a uno di essi un giorno venga la tentazione di abbassarsi alla mia quota per farsi intercettare. Probabilmente solo giunti a metà vita si comincia a capire quanto le parole siano sopravvalutate, come troppo spesso rischino di attivare quelle zone del cervello adibite a imbrigliare tutto ciò che tende a sfuggire al nostro controllo, anche quando si sta vivendo l’altra metà del cielo.
Andare alla ricerca di una risposta per mio figlio è quindi una responsabilità immensa, mi fa pensare al battito d’ali di una farfalla nella teoria del caos. Dal modo in cui le mie parole saranno percepite, se arriveranno dove spero o si fermeranno invece appena varcata la soglia delle sue orecchie, dipenderanno troppe cose. È molto sottile il confine tra l’essere in grado di far germogliare un seme e lasciare incolto per sempre un terreno fertile. Uno spericolato funambolismo emotivo.
Mentre il piccolo segue con gli occhi il profilo di quella misteriosa macchina volante dall’aria austera e antica, ne accarezza delicatamente i contorni e alzando lo sguardo mi chiede: «Papà, perché ha due ali?».
L’ultimo ad avermi domandato: «Perché proprio due ali?!» è stato un amico broker mentre al telefono cercavamo di definire i dettagli della polizza. La mia risposta è stata: «Perché ami tua moglie?». Mi è capitato spesso di riflettere: “Come può un uomo inseguire, a volte per tutta la vita, un’ideale che neanche lui ben conosce o comprende, sperando di trovarlo proprio in una donna con cui magari invecchiare?”.
Assicurazioni, argomento arido ma necessario che adesso voleva dire solo una cosa: dopo otto anni il biplano mi aveva trovato. Non riuscivo ancora a crederci e ne sarebbe passato di tempo prima di realizzare appieno, ma alla fine era successo. Proprio quando mi son sentito a un passo dalla resa e dalla rinuncia al sogno, inaspettatamente e per una serie di circostanze ambasciatrici del “nulla accade per caso”, era arrivato… o arrivata. Non mi era ancora chiaro in effetti se fosse maschio o femmina, ho sempre saputo che i biplani dovessero essere considerati delle Signore cui andrebbe dato un nome da pin-up. Quello che si è fatto scegliere da me ha un aspetto senz’altro robusto, ricorda un rassicurante padre di famiglia o magari un fratello maggiore. Dovevo aspettare ancora un po' per esserne sicuro. Avrei dovuto sentire la sua voce, ascoltarla osservando girare l’elica da dietro, dopo averlo indossato. Per avere la conferma che eravamo fatti davvero l’uno per l’altro.
Solo ora riuscivo a capire che quello che stavo vivendo era l’attimo di cui gli amici più esperti con la mia stessa sindrome avevano sempre parlato: quello in cui realizzi che senza saperlo stavi cercando proprio quel biplano, o più probabilmente lui stava aspettando te. Il momento verso il quale sei inconsapevolmente guidato da una forza misteriosa e tenace, che ti ha fatto persino soffrire, ma che aveva il fine ultimo di condurti dritto a quell’incontro. Proprio con lui. Proprio in quell’hangar. Proprio in quel periodo, con quello che di certo non credevi fosse lo stato d’animo più adeguato.
Finalmente ci conoscevamo, dopo 8 anni di rabdomanzia e pellegrinaggi, interminabili come il simbolo che richiamano, sofferti come una gravidanza. E già, credo proprio che se i biplani potessero essere partoriti questo sarebbe il tempo necessario per la gestazione, almeno per quanto mi riguarda. Speriamo ci siano delle sane eccezioni, di sicuro ci sono stati molti parti prematuri.
Il bimbo continua a sgambettare vicino a quel giocattolo più grande di lui, mi fa pensare a uno sciamano delle tribù indiane d’America che danza intorno al fuoco o a un totem. Continua a girarci attorno senza mai perdere il contatto fisico, non smette un istante di toccarlo. Sorrido. È un ottimo segno: gli piace. La sensazione della tela leggermente ruvida sotto i polpastrelli gli fa immaginare come doveva essere accarezzare un dinosauro che dorme. Cammina a piccoli passi ancora incerti, in fondo ha solo quattro anni, ma studia il suo nuovo amico con profonda attenzione, con quel tipico impegno che solo i bambini sanno mettere anche nelle cose più semplici. Si china sulle ginocchia per curiosare sotto una delle ali inferiori: «Papà qui sotto non c’è nulla, come fa a volare?». Giunto davanti all’elica la esamina e, grattandosi la testa, sorride dolcemente imbarazzato. Lo tengo d’occhio divertito mentre aspetto con pazienza in piedi accanto all’abitacolo. Mi corre incontro e si aggrappa alle mie gambe. Lo sollevo tenendolo per i fianchi poco sotto le braccia, vuole guardare dentro: «Oooh che belloooooooo! È tutto di legno e pelle, ha l’odore del salotto di nonna in montagna!». Gli faccio poggiare i piedi sul sedile e lo aiuto a sistemarsi al posto di pilotaggio, una gamba di qua e l’altra al di là della barra. Mentre con il piccolo indice ne disegna lentamente i contorni, chiede: «Papà, cosa sono tutti questi orologi?». Gli racconto con voce pacata, sottolineandone l’importanza, la funzione dei comandi e degli strumenti installati sul cruscotto. È un utile ripasso anche per me. Questa è la parte facile, sono solo questioni tecniche, e lui le capisce subito fin troppo bene. Annuisce silenzioso, facendo ogni tanto: «Mmm mmm» mentre osserva con sincero interesse quello che ha davanti e intorno a sé, girando la testa in ogni direzione. Impugna delicatamente la cloche con la mano destra e la leva del gas con la sinistra, arriccia il naso e scruta perplesso oltre il parabrezza: «Papà, a cosa servono i fili?».
La mia memoria, con la sua ricca collezione di diapositive, viene immediatamente proiettata al periodo in cui frequentavo la scuola di volo e in particolare al giorno dell’esame per conseguire l’attestato.
Avevo adocchiato già da qualche tempo l’aereo personale del mio istruttore. Lo trovavo sempre in hangar, muso all’insù, fiero e forse un po' superbo. Sembrava sentirsi fuori posto lì in mezzo. Abbandonato tra simili troppo diversi da lui. Troppo conformisti per riconoscere la sua singolare bellezza. Troppo presuntuosi per comprendere la sua eleganza fuori dal tempo. Nonostante la poca luce, il freddo del suo ricovero e la compagnia stonata, rimaneva silenzioso, come se aspettasse pazientemente qualcosa o qualcuno.
Senza rendermene conto avevo iniziato a corteggiarlo. Lo avvistavo ogni volta, già da lontano scendendo dall’auto, proprio grazie a quei “fili” di acciaio tesi a incrocio tra le quattro semiali, che tagliavano a spicchi la figura del meccanico intento a lavorare dietro la sua coda. Lo stesso meccanico che di lì a poco avrei contagiato e che mi avrebbe accompagnato in giro per l’Italia alla ricerca della mia Signora. Col tempo mi ha confidato che il motivo per il quale aveva sentito il desiderio di aiutarmi era una insolita forma di ammirazione, visto che ero l’unico allievo della scuola a non essere minimamente interessato a fare l’ennesimo turista della domenica con il solito ultraleggero.
Non era la prima volta che vedevo un biplano in quel campo volo. Avevo ancora scolpiti nella memoria parecchi ricordi di foto e disegni su libri e riviste - le letture della mia infanzia - come pure degli innumerevoli modellini costruiti con tanta perizia, che a quanto pare all’epoca non avevano lasciato il segno.
Mio padre volava per lavoro ed io ho ricevuto il battesimo dell’aria all’età di otto anni, un numero che inspiegabilmente ritorna. Ho avuto l’immensa fortuna di poter viaggiare molto con lui e la maggior parte di questi voli li ho vissuti da spettatore privilegiato, alle spalle dei piloti.
Adesso però la storia era diversa: stavo imparando a volare. Davanti ai miei occhi non c’erano più immagini su cui fantasticare, aggressivi caccia che sognavo di pilotare se avessi potuto fare l’Accademia o enormi aerei di linea cui avevo rinunciato per laurearmi. Ora c’erano aerei a misura d’uomo, che potevo toccare. Ora spettava a me portarne in aria uno. Ero io il responsabile del volo ai comandi. Io la causa per cui “staccavamo l’ombra da terra”. Finalmente potevo sentire il più autentico profumo che prelude a un decollo, quel misto di erba appena tagliata e benzina.
Per seguire le lezioni ho percorso un’infinità di chilometri e passato molte ore in macchina. Con la nebbia. Con la neve. Spesso tornavo a casa a notte fonda. Non volevo la scuola più vicina, ma la migliore tra quelle raggiungibili. Lo rifarei ancora, con lo stesso identico entusiasmo.
Tutte le volte che arrivavo al campo era inevitabile passare davanti all’hangar-officina sempre aperto e mi fermavo a contemplare affascinato le linee raffinate e i tiranti di quell’eccentrico apparecchio che vedevo sempre a terra, mezzo addormentato. Un apparecchio così diverso da tutti gli altri, che gli stavano intorno come immobili satelliti, che si distingueva per la sua sfuggente personalità. Con i piedi e le ruote a contatto col terreno non era consentito svelarla.
Il biplano era molto diverso anche dall’aereo che dovevo raggiungere per la lezione e avevo spesso l’impressione che fosse sul punto di chiamarmi. Sembrava emettere un impercettibile richiamo e io cominciavo ad ammirarlo con gli occhi di un bimbo fermo davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli quando vede il suo preferito.
Ho preso a tampinare il mio istruttore per il resto del corso, cercando con educazione e pazienza di indurlo a farmi fare un giro come passeggero. Il giorno dell’esame, a mia insaputa, aveva deciso di portarmi in volo. Un premio per aver superato la prova e aver messo le ali. Ali che mi aveva consegnato un paio di settimane prima, il giorno in cui sono nato per la seconda volta. Il giorno del mio primo volo da solista.
Mentre lui offriva da bere alla Signora e controllava che tutto fosse in ordine, io le giravo intorno, come ora stava facendo il bambino. Un’unica differenza: io non riuscivo a parlare. Ero l’incarnazione di Felicità e Meraviglia, entrambe dee mute.
Quel volo fu la cornice perfetta per il mio brevetto. Adesso ero un pilota e avevo capito cosa desiderare. Ero stato folgorato sulla via di Damasco, che nel mio caso era una striscia d’erba nella bassa pianura bresciana.
Spento il motore sono sceso controvoglia, come un fanciullo da una giostra, ma con una sensazione di benessere mai provata prima. Ho ringraziato silenziosamente con una carezza la creatura dal perfetto numero di ali e mi sono abbandonato sull’erba accanto a lei, con un sorriso a trentacinque denti, come il numero di anni che purtroppo avevo aspettato per rinascere.
Quel pomeriggio. Su quel prato. Sotto il sole di maggio che stava per tramontare. Mi ero innamorato.
Negli anni a seguire ho capito che non era assolutamente importante che fosse in alluminio, legno o composito. Monoposto o biposto. Che avesse la cabina aperta o chiusa. Che fosse una moderna replica veloce o giurasse fedeltà ai lenti parametri d’epoca. Non c’era una ragione, non poteva e non doveva esserci. Era un fatto che potevo solo accettare. Era passione e basta.
Il bimbo mi chiama: «Papà, mi piace tanto guardare il cielo da qui, sembra un disegno!». È ancora seduto al posto di pilotaggio, lo sguardo fisso davanti a sé punta lontano, nell’azzurro intenso incorniciato tra le quattro semiali. I “fili” sussurrano piano esposti al vento, sembrano delle fusa o una richiesta fatta sottovoce. Il biplano attende placido davanti al suo hangar. Siamo a maggio, il mese in cui sono nato. Otto anni esatti dal pomeriggio in cui mi son disteso sull’erba a fissare il cielo con lo sguardo perso e il cuore che palpitava. Come allora il sole sta per svanire ai margini della pianura.
«Vieni piccolo, ti sistemo nel posto anteriore, quello per le persone importanti. È arrivato il momento di volare…». Non mostra alcun timore, emette solo gridolini di gioia.
Mentre gli sistemo il caschetto di pelle, gli occhialoni e la sciarpa di seta bianca che gli ho fatto fare per l’occasione, mi accorgo di quanto mi somigli. Lo accarezzo teneramente sulla guancia e il pensiero va subito ad una vecchia foto di quando avevo circa la sua età, una stampa in bianco e nero su carta Kodak ancora appesa al muro della mia camera da letto: indosso un cappotto di Loden con il bavero alzato, il sole mi illumina il viso mentre sorrido col naso all’insù e un’espressione di grande sorpresa. Mia madre dice che ero rimasto incantato da un aeroplano ad alta quota.
Io e il bambino siamo in volo. Al cielo non potrei chiedere di meglio. Mi sta facendo il regalo più bello mostrando tutte le sfumature di cui è capace, quelle che ho sempre immaginato e desiderato. L’aria turbina intorno a noi, il motore fa il suo dovere girando morbido, ma ad ascoltare bene c’è silenzio. Le sciarpe danzano in aria, scintillando come serpenti di madreperla alla luce calda del crepuscolo. Il bimbo si gira e mi sorride attraverso i grandi occhialoni un po' storti, con un’espressione fin troppo eloquente e una luce negli occhi che sento di avere anch’io. Se non fosse troppo piccolo direi che si è innamorato. Guardando davanti a sé stende in alto le braccia e grida qualcosa che non capisco al vento. Si volta di nuovo, è tutto guanciotte e dentini. Leggo le sue labbra mentre mormora: “Grazie Ale”.
Gli restituisco lo sguardo come farebbe ogni padre amorevole e gli mando un bacio. Mi osservo intorno. Sono immerso in quella dimensione che ogni pilota insegue come un richiamo. L’unica in cui può essere davvero libero. Respiro profondamente. L’aria è un distillato di pura serenità. Il sogno non è più un’illusione. È proprio vero, sto sorridendo dentro.
Una rapida occhiata agli strumenti e poi di nuovo fuori, sembra di essere sospesi in un dipinto impressionista. Penso: “E’ la cosa più bella del mondo…”.
Un’ampia virata per tornare verso casa, quella da comune mortale. Contemplo l’orizzonte al di là dell’elica, con gli occhi lucidi e la felicità che regna indisturbata sul mio viso. Il sole sta andando a dormire. Mi rispondo: “Ecco perché…”.
E in quel preciso istante mi accorgo che a bordo ci sono solo io.
A.M.
Milano, 04/05/2020