Sì, un biplano, esatto.

Ce n'era bisogno?
No, ovviamente no.
"Un uomo senza blog è come un pesce senza bicicletta" dice più o meno il saggio e questi sono tempi in cui ci sono più blog che uomini, pesci e biciclette messi insieme.
E allora?
E allora eccomi qui a fare un altro ennesimo blog nascosto tra i milioni di altri blog. Perché sì. Perché io ho una passione, male comune nella razza umana, e leggere quei pochissimi blog esistenti su questa mia inusuale passione mi ha dato l'energia per arrivare in fondo, mi ha dato emozioni tali che un infermiere potrebbe scambiare per sintomi di epilessia.
Così ecco questo blog: uno tra i tantissimi blog, ma uno tra i pochissimi a parlare di biplani.
E non dei biplani degli eroi o dei pilotoni con carte di credito placcate d'oro. No.
Sono un impiegato, ho una famiglia, ho come tutti mandrie di simboliche nuvole nere che tolgono il sole e a volte mi fradiciano: se ci sono riuscito io può riuscirci chiunque. E un blog che racconta una storia simile non l'ho mai trovato, e se l'avessi trovato, caspita!, mi avrebbe reso felice.
Ho una chance di rendere felice qualcuno, come non approfittarne? :)
Quindi iniziamo: "C'era una volta un biplano..."

domenica 15 marzo 2020

15. Il punto

Lo so, dovrei proprio parlare dei motori. Il fatto è che per quanto ormai abbia una discreta infarinatura non ne so mai abbastanza e quindi rimando questo argomento al momento in cui potrò dire cose meno da sentito dire e più da esperienza diretta.

Passando quindi ad argomenti meno cocenti ecco quello a cui non si pensa: il punto.
E sì, perché esiste un punto.
Esiste per tutti gli aerei ma il punto dei biplani è davvero notevole.

Mi spiego: si studia per diventare piloti di biplano, e si hanno mille compagnie. Allievi come noi, istruttori, altri piloti. Incoraggiamenti, consigli, critiche costruttive o meno.
Poi si cerca un biplano. E ci sono amici apparsi magicamente che ci danno una mano, contatti nuovi con cui condividere aspettative e delusioni, meccanici e tecnici con i loro istruttivi punti di vista.
Quindi ecco l'hangar, che è più un salotto che un condominio, dove non si è mai soli.

Ma alla fine arriva quel punto. Quando si acquista quello specifico biplano con quella unica configurazione, quando si vola, quando si pensa a tutta la strada che ci ha portato esattamente sino lì.
È il punto che arriva dopo il decollo, dopo che la radio fa silenzio e le ruote sono staccate da terra e stiamo giocando con la potenza e la cloche: è il punto in cui anche se ci fosse un passeggero quel pensiero arriverebbe comunque. "Ora sono solo. Ora devo cavarmela da solo. Non c'è nessuno che possa aiutarmi, che possa vivere questa esperienza insieme a me, darmi un consiglio o solo una pacca sulla spalla."
La certezza che qualunque cosa accada da lì all'atterraggio ci sarai solo tu ad affrontarla, che qualsiasi gioia tu possa provare sarà solo tua. Il passeggero o il compagno in formazione, se ci sono, vivranno il loro volo diverso dal tuo, avranno i loro problemi e le loro gioie diverse dalle tue.
Questo fa sentire soli. No, non è la frase giusta: questo fa sentire felicemente soli. Perché ci sono purtroppo emozioni tanto grandi che non possono essere condivise e il volo in biplano fa parte di queste. Non solo è impossibile da condividere, è pure impossibile da raccontare: Richard Bach ci è riuscito prendendolo spesso come simbolo della conquista di una Verità superiore, di una libertà e ricerca e coraggio di decollare che non era mai stato raccontato prima. E verità, libertà, ricerca e coraggio sono concetti noti e positivi che quindi ci aiutano a capire cosa si prova volando tra ali e tiranti. Ma da qui a spiegare la gioia di quel volo ci passa un mondo.

Sabato scorso sono stato immerso in un tramonto per 42 minuti. Bel numero. Gridavo cose sceme come "Yabadabadù!" e inclinavo le ali una volta a destra e una a sinistra facendo ogni volta girotondi completi col mondo terribilmente obliquo davanti a me come un ubriaco di notte la cui testa vuole tornare a casa ma le gambe lo portano a passi di danza verso un altro bar. E come lui una volta tramontato il sole ho annunciato via radio il mio atterraggio, "Santa Severa, India Alfa 1 3 4 vira in base destra per 3... No, scusate, resto ancora su" e via a fare un giro (un altro!) intorno al castello sulla spiaggia appena illuminato da spade di luci, a godere dei suoi riflessi sul mare. E come fai a descrivere cosa si prova? 
Una volta atterrato - era così tardi che il gestore della pista suggeriva che se fossi restato ancora qualche minuto in volo avrebbero dovuto illuminare la pista con i fari delle macchine per permettermi di atterrare e non scherzava poi molto - dopo essermi tolto lentamente il caschetto di cuoio sono rimasto dentro l'abitacolo a godere degli odori, gli scricchiolii, il calore, il silenzio improvviso dentro le cuffie e fuori. Per smaltire le emozioni, per rendermi conto che davvero, davvero io avevo vissuto quel volo, quella esperienza così incredibile e indescrivibile. Appena 42 minuti.

Ecco, si è soli anche in questo: nel non poter descrivere ciò che si vive. Sì, questo vale per tutto, ma quando si ha una esperienza tanto forte come quella del volo in biplano è dura tenersela per sé. Ma come uso dire, o chi ti ascolta non è un pilota allora non potrà mai capire cosa stai dicendo, o chi ti ascolta è un pilota allora è inutile che glielo descrivi: già lo sa.

Solitudine quindi. Annunciata da un punto specifico: un attimo dopo il decollo. Da lì all'atterraggio tutto ciò che accade ti appartiene ed è solo tuo, dovrai custodirlo senza poterlo davvero condividere con nessuno, gioie e problemi. Dovrai farti carico di risolvere ogni cosa con la tua esperienza e questo è un compito che cambia il carattere, che ti rende diverso. Ti fa capire che non ne sai mai abbastanza ma che devi cavartela da solo con quel non abbastanza, e che te la caverai.
Ma oltre alla solitudine quel punto ti porta una consapevolezza opposta: che fai parte di un gruppo di persone con una identità tanto forte da poterli considerare quasi fratelli, alcuni più che fratelli. Persone che vivono ognuna il proprio volo ma poi a terra basta uno sguardo per capire che anche l'altro è stato felice quanto te e come te e non rinuncerebbe davvero al volo appena fatto, non vorrebbe essere in nessuna altra parte che non sia lì a volare. Un gruppo di persone che, e parlo per esperienza, considera davvero prioritario aiutare un altro pilota o solo accoglierlo come se si trattasse di un vecchio amico anche se è la prima volta che lo si incontra.
Strano come una esperienza di solitudine tanto forte, tanto personale e formativa, possa generare uno dei più forti legami di gruppo che abbia conosciuto. Inaspettatamente bello, una delle cose che nessuno scrive sui manuali e che da sola valgono la pena di conoscere il mondo di questi grandiosi mezzi volanti e delle persone che dedicano loro la vita.

sabato 7 marzo 2020

14. Imparare un biplano

Mila Misek, Tiger Moth ULM e Gianni Sarti

Continuiamo la storia.
Stavo usando tutto il mio tempo per aumentare l'affidabilità e la conoscenza di Melody, il mio Fisher 404, e mi preoccupavo di come avrei imparato a pilotarlo. In più non potevo ancora volarci, non c'era l'assicurazione. Per fare l'assicurazione però avrei dovuto prima immatricolarlo. E per immatricolarlo dovevo decidere se lasciare il motore a due tempi che c'era (funzionante bene ma vecchio, ottimo per i giri campo senza allontanarsi troppo) o cambiarlo con un quattro tempi che mi avrebbe permesso di volare come desideravo, per lunghi tragitti, zingarando tra le aviosuperfici d'Italia.
Volevo imparare a pilotarlo ma al momento non potevo nemmeno provarlo.

Ovviamente il corso di volo l'avevo fatto su un mezzo triciclo e piloti e istruttori tutto quello che mi avevano detto dei mezzi bicicli come i biplani era che erano davvero ma davvero difficili. L'istruttore più costruttivo mi disse che avrei dovuto dimenticare tutto su atterraggio e decollo e ricominciare da capo con tutte le difficoltà di chi deve sovrascrivere qualcosa di appreso sino a farlo diventare automatico con qualcosa di totalmente nuovo e diverso.
Nessun istruttore però, contrariamente alle promesse di quando mi ero iscritto alla scuola di volo, era in grado di insegnarmi a pilotare un biciclo. O non c'erano bicicli o non c'erano istruttori che ci sapessero volare. Lo so, bisogna essere cocciuti per non arrendersi, non ho mai detto il contrario. :)
C'era, e credo ci sia ancora, una scuola per imparare a pilotare bicicli. È a Brescia, a Torbole Casaglia, si trova su www.volobrescia.it e hanno dei magnifici Zlin Savage  biciclo che però sono aerei con caratteristiche particolari visto che decollano e atterrano in pochissimo spazio in luoghi dove i normali aerei potrebbero rompere i carrelli. Il volo Bush flying nasce nei grandi spazi del Nord America, del Canada e dell'Australia per permettere ai mandriani di raggiungere il bestiame lontano da casa e tornare in tempi che il cavallo si sogna, atterrando nei campi e nei letti dei fiumi. Sì, è l'evoluzione avio dei cowboy e anche fosse solo per questo trovo la cosa incredibilmente affascinante. Però Brescia non è proprio dietro l'angolo e la cifra richiesta per il corso era, beh, significativa. Non c'era un'altra soluzione?

La fortuna è un'ottima alternativa.
Cercavo informazioni sul mio Fisher 404 in rete e trovai il racconto di un pilota che aveva fondato il Biplano Club Europa. Aveva anche lui un 404 con cui aveva volato una enormità di ore e per di più aveva un motore quattro tempi proprio come lo cercavo io: un Aero Vee, ossia un Volkswagen avionizzato. Era buffo vedere la sua foto: il 404 è un aereo minuscolo come ho detto mentre il pilota era altissimo. Pensarlo dentro quel giocattolo mi faceva venire in mente un vecchissimo documentario sugli esquimesi, era in bianco e nero e senza sonoro, e alla prima scena si vede una canoa attraccare su una banchina e da lì uscire sfilandosi dal foro sulla canoa il marinaio che la conduceva con la pagaia, e poi dallo stesso foro usciva la moglie con un figlio piccolo in braccio, quindi un altro figlio più grande, un terzo e infine addirittura il grosso cane. Conoscete la cabina del dottor Who o la borsa di Mary Poppins? Ecco.
Quell'aviatore poteva consigliarmi. Gli scrissi, anche perché avevo appena letto il suo racconto di come portò a casa il suo secondo biplano, un meraviglioso Tiger Moth riprodotto fedelmente in scala 1:1 ma ultraleggero. Aveva attraversato la Germania affrontando i problemi meteo, meccanici e umani (ogni pilota è da solo passato quel punto dopo il decollo, giusto? OK, lo vedremo nel prossimo post), aveva attraversato le Alpi descrivendo le emozioni che una cosa tanto grande dona, ed era arrivato vicino Ferrara. Il tutto dopo aver passato troppo poco tempo a conoscere il mezzo, se ricordo bene si parla di mezz'ora per il passaggio macchina, per esigenze tecniche.
Insomma scrissi a questo eccezionale aviatore. Mila Misek. Email porta email e come vedremo la solidarietà tra piloti di biplano - non importa che lo si sia già o che lo si cerchi di diventare - è scattata.
"Vieni qui un fine settimana, facciamo un po' di decolli e atterraggi insieme se vuoi".

Ora facciamo delle precisazioni.

Precisazione n. 1: ma avete presente il Tiger Moth? Negli anni '30 tra tanti altri c'era la tripletta magica dei biplani biposto. Il Boeing Stearman, grosso ed esuberante, con un motore in grado di trainare una nave. Americano ovviamente. La magnificenza indiscussa, il biplano che avrebbe disegnato Walt Disney in un momento di serietà. Poi il Bücker Jungmann. Efficienza, linee severe ed essenziali, carrello simile agli artigli di un'aquila. Tedeschissimo, l'eleganza della linea minimalista e funzionale. Infine l'inglese Tiger Moth, niente possenza né linea funzionale ma solo eleganza romantica, non c'era nulla da dimostrare oltre il fatto che volare è bello e quindi i biplani che permettevano di farlo dovevano essere emozione pura. È il biplano usato nei film come "Il paziente inglese" e "La mia Africa" per capirci. Film di storie d'amore, il Tiger Moth della De Havilland non ha rivali. E Mila mi proponeva di imparare su un Tiger Moth. Wow. Vincere alla lotteria non mi fa sentire più fortunato.

Precisazione n. 2: ogni pilota è giustamente geloso del proprio mezzo. C'è chi non porta mai i passeggeri anche se ha un biposto. È corretto, il rapporto che si ha con il proprio aereo è qualcosa di unico, ognuno affida la propria vita all'altro, pilota e aereo. E Mila metteva da parte la sua gelosia, la sua preoccupazione per il proprio magnifico biplano solo per aiutare un aspirante pilota a capire e vincere le proprie paure. Su un Tiger Moth!

Precisazione n. 3: quando si impara ad atterrare inevitabilmente si rischia di fare atterraggi pesanti. Non così pesanti da rompere l'aereo (si spera!) ma abbastanza pesanti che l'aereo se potesse parlare direbbe "E stacci attento! Mi fai male! Aio!" e Mila mi concedeva il rischio di far del male (precisazione n. 3) al suo biplano (precisazione n. 2) Tiger Moth (precisazione n. 1).
Non credevo capitassero cose simili.

Incontro Mila a una manifestazione. Conosco il suo Tiger Moth, Tigrone. Lui il 404 l'ha venduto quando ha acquistato Tigrone. Ma tanto è ovvio che imparare sul 404 che è monoposto è impossibile, devo farlo su un biposto. Faccio il primo volo con Mila e per la prima volta capisco cosa significhi volare in biplano. Beh no: no, sembrava di sì ma col tempo ho imparato che quel primo volo in cui ero distratto da mille cose e tutte cose sbagliate, per quanto sia apparso strabiliante non mi ha affatto mostrato la gioia vera del volo. C'era molto di più.
Fine settimana da Mila. Pista di 450 metri. Tanta paura, tutti gli istruttori nella mia memoria ripetevano quanto fosse difficile governare un biciclo, quanto si possa facilmente distruggere il biplano. Mila li ignorava, mi mostrava la facilità. "Eh grazie, lo fa lui che è esperto". Quindi la prima fase è stata distruggere le paure, capire che è possibile farlo. Eseguivamo sette tentativi, sette circuiti con sette atterraggi e decolli senza fermarsi (touch and go se ricordi quanto scrissi qualche post fa) e poi una pausa per rilassare e memorizzare. Poi altri sette. E altri sette. I primi li eseguiva Mila, poi li eseguivamo insieme, poi mi guidava solo quando necessario, infine eccomi autonomo.
Ora se decollare è di una semplicità abbastanza banale (dai manetta e aspetti, o poco più, e il biplano fa tutto da solo purché tu lo tenga in pista), se volare con le resistenze tipiche di questi mezzi era molto diverso dal volare con gli aerei di scuola, ecco che atterrare era davvero tutta un'altra cosa. Mi ha aiutato la tecnica di atterraggio di Mila: il biscotto.
A scuola di volo si impara ad atterrare disegnando angoli retti. Si va paralleli alla pista come una macchina percorre la strada parallela al marciapiedi, si gira a 90 gradi verso la pista, si gira di altri 90 gradi fino a essere allineati con lei e si scende. Come disegnare una estremità di un rettangolo. Questo è efficiente, ha punti precisi, ma gli angoli impongono virate a velocità basse e sono un punto debole. Un tempo invece i biplani usavano la tecnica più sicura: si va paralleli alla pista come sopra, poi anziché fare due curve da 90 gradi si disegna un unico semicerchio, una grande curva di 180 gradi, durante la quale si scende e alla fine ci si trova direttamente in linea della pista, in prossimità della pista. Così atterravano i biplani. La curva più larga è più sicura alle basse velocità, la si può stringere o allargare per centrare meglio la pista, è più istintiva ed elegante. Essendo questa tecnica una tecnica differente da quella con cui atterravo con l'aereo scuola ecco che non stavo sovrascrivendo ciò che sapevo ma stavo imparando qualcosa di differente e questo ha reso tutto più semplice.

Vogliamo parlare un po' dell'atterraggio?
Scendendo la visuale è totalmente nascosta dal grosso muso del mezzo, non si guarda davanti ma a lato. Per vedere la pista si può abbassare un attimo la prua così da valutare l'allineamento ma dopo un po' si impara a capire quanto si è in rotta osservando solo i cinesini di un lato, cioè i segnapista bianchi che stanno a intervalli ai lati della pista. Si punta la testata pista e un attimo prima di piantarci le ruote si richiama appena la cloche e si comincia a galleggiare paralleli al suolo per smaltire velocità. Se sei troppo alto poi ti aspetta una caduta davvero poco carina, se sei troppo basso le ruote toccano e si rimbalza. Mentre devi decidere se sei o no a mezzo metro da terra tocca continuare a controllare l'allineamento con i cinesini da un lato, da un lato solo, altrimenti ci si sbaglia facilmente. Terribile, giusto? Ma no, parcheggiare una macchina a Roma è di sicuro più complesso eppure lo si potrebbe fare recitando la ricetta della carbonara senza sbagliare. Poi si tocca terra: l'assetto dell'aereo deve essere cabrato, col muso un po' in alto, così l'aria lo frena e la corsa sarà più breve. Ma qui un piccolo errore crea rimbalzi, le ruote davanti toccano, la coda scendendo fa puntare la prua in alto così il biplano tenta di decollare di nuovo ma non ha la spinta per farlo quindi torna giù, la coda scende appena le ruote toccano terra e lui torna a rimbalzare... Ci vuole un po' di allenamento per evitarlo e io sinceramente ancora non ne ho abbastanza. Ma diciamo che un paio di cangurate fanno parte del gioco, ci stanno, basta che siano piccoline e non ci portino fuori della nostra retta al centro della pista.
Una volta a terra l'aereo vorrebbe avanzare ma le ruote fanno resistenza, così cerca di passare avanti alle proprie ruote, girandosi in un testacoda. Detta così è orrenda, vero? Ma no, basta premere alternativamente i pedali poco poco per spezzare sul nascere qualsiasi cattivo comportamento, e si procede tranquilli e dritti.
È importante stare in guardia sino a quando l'aereo non è fermo e l'elica ferma, basta un attimo per finire in un canaletto a bordo pista e ne so qualcosa. :)
E piano piano Mila mi ha insegnato tutto questo. Che pazienza.

Insomma sono stato fortunato. Ho trovato un pilota unico a cui ora sono legato come a un fratello, un biplano incredibile e una pista difficile (450 metri sono pochini per imparare, fidati) al cui confronto ogni altra pista sarebbe stata una passeggiata.

Ma chi non ha tanta fortuna come può imparare a pilotare un biciclo?
La scuola di Brescia sembra un'ottima occasione, ci sarei andato se non avessi trovato Mila. Gli amici con i bicicli possono darci una infarinatura ma sinceramente ci vuole del tempo per imparare a gestire l'atterraggio con questi mezzi che nascondono la pista sotto il muso e a terra tendono a fare piroette. Una volta imparata la tecnica tutto diventa semplice e non si capisce il motivo per cui altri trovino il biciclo difficile ma la fase del dimenticare come si pilota il banale triciclo e incamerare gli automatismi per condurre un biciclo può avere bisogno del suo tempo. Quindi usare l'aereo di un amico è chiedere davvero troppo. Per questo parlando di scuole di volo consigliavo di trovarne una che insegnasse direttamente su un biciclo. Sono pochissime, pochi allievi vogliono imparare i bicicli (presente!) ma magari se ne trova una più vicina di Brescia.

Torniamo alla storia: dopo aver imparato e mentre Melody ancora finiva i suoi controlli prima dell'immatricolazione, cercando il motore quattro tempi Mila mi parlò di un biplano in vendita col motore quattro tempi a Gorizia. "Non c'è nulla da fare, è perfetto, lo prendi e lo voli". L'abbiamo già sentita, vero? Ma andai a vederlo. La sera stessa avevo dato l'anticipo per Greta. Avevo trovato il motore quattro tempi che cercavo. Con tutto un biplano intorno. :)