Sì, un biplano, esatto.

Ce n'era bisogno?
No, ovviamente no.
"Un uomo senza blog è come un pesce senza bicicletta" dice più o meno il saggio e questi sono tempi in cui ci sono più blog che uomini, pesci e biciclette messi insieme.
E allora?
E allora eccomi qui a fare un altro ennesimo blog nascosto tra i milioni di altri blog. Perché sì. Perché io ho una passione, male comune nella razza umana, e leggere quei pochissimi blog esistenti su questa mia inusuale passione mi ha dato l'energia per arrivare in fondo, mi ha dato emozioni tali che un infermiere potrebbe scambiare per sintomi di epilessia.
Così ecco questo blog: uno tra i tantissimi blog, ma uno tra i pochissimi a parlare di biplani.
E non dei biplani degli eroi o dei pilotoni con carte di credito placcate d'oro. No.
Sono un impiegato, ho una famiglia, ho come tutti mandrie di simboliche nuvole nere che tolgono il sole e a volte mi fradiciano: se ci sono riuscito io può riuscirci chiunque. E un blog che racconta una storia simile non l'ho mai trovato, e se l'avessi trovato, caspita!, mi avrebbe reso felice.
Ho una chance di rendere felice qualcuno, come non approfittarne? :)
Quindi iniziamo: "C'era una volta un biplano..."

domenica 12 aprile 2020

16. Greta

Bucker Jungmann
L'ultimo volo del Vecio
5 dicembre 2015. Entro dentro il grande hangar storico di Gorizia, una struttura magnifica dove gli aerei avevano non una pista ma un'area intera dove decollare e atterrare sempre controvento, e incontro Greta. Che ancora non si chiamava Greta ma Vecio, vecchio. "Allora è lui". Un biplano grigio, solenne, troppo serio per me mi sono detto. Certo me lo aspettavo diverso. Più colorato, più leggero, simpatico. Però era lui il biplano in vendita.
Bücker Jungmann. Uno della tripletta di biplani biposto degli anni '30 di cui scrivevo. L'eleganza della linea funzionale, la creatura della tecnologia nazista che rivoluzionava le linee. Per quei tempi era un biplano del futuro, tanto che il suo successo lo portò a essere replicato e costruito dalla Spagna al Giappone, dal Sud Africa alla Finlandia. Ma questa è un'altra storia. Il grande biplano davanti a me era una sua replica in scala 1:1 costruita nel 2002, ultraleggera nonostante l'imponenza. 
Greta, che ancora non era Greta, era davanti ai miei occhi. Il meccanico Giggi gli girava intorno con rispetto; Igino, il proprietario, mi confidava "è una vecchia signora e come tale va trattata", dove signora è un titolo. Anche se poi la chiamava Vecio.
Il mio amico Mila, che mi aveva presentato Igino e Greta – che ancora era il Vecio – mi disse "entraci, stai un po' nell'abitacolo, solo tu e il biplano. Sentilo."
Ero troppo emozionato. No, non emozionato. Frastornato. Un biplano. Era così grande. Ed era un'occasione, mio padre voleva aiutarmi ad acquistarlo ed era la prima volta che mi offriva il suo aiuto, era per lui un mettersi in pace con i conti non saldati della famiglia, era una proposta di tregua per tutto il passato che non ci aveva visti davvero come padre e figlio. E voleva farlo ora, sentiva che il suo orologio stava per battere la mezzanotte. Così Greta, che ancora era il Vecio, era alla mia portata.
Non provavo emozioni perché erano troppe, troppo contrastanti, troppo inaspettate. Nulla ci prepara a un incontro simile. Subivo quel momento, pensavo "è lui, diventerà il mio biplano. Se lo voglio." Era diverso da come me lo aspettassi ma era magnifico, non avrei mai creduto di poter avere o solo volare su un mezzo così. L'ho detto che era grande? E serio? E grigio?
Igino mi mostrò i punti da controllare, i valori da annotare, le operazioni da fare. Videoregistrai tutto sul telefonino, non ero in grado di memorizzare nulla. Rividi centinaia di volte quelle due registrazioni, una per i controlli fuori e una per quelli dentro la carlinga.
Poi volammo insieme. Una giornata grigia come il biplano. Decollo lungo, e Mila che filmava, ma allora non capii che era lungo. Capii solo che stavo volando con Greta che non era ancora Greta. "Allora è lui". Pochi minuti in volo, il paesaggio intorno vestito di foschia, non sapevo cosa guardare, cosa dover ricordare; e poi l’atterraggio. Igino aveva tenuto i giri motore alti, mi sembrava veloce, scoprii poi che non lo era. Atterraggio, e il Vecio smette di essere il Vecio quando entra il silenzio. Al suo prossimo volo sarà Greta.

Giornata grigia, volo grigio, nessuna emozione perché erano troppo grandi per poterle misurare. Mi interessava? Io volevo un biplano, Greta era obiettivamente magnifica, tutti si aspettavano che l’avrei acquistata: non riuscivo a capire le mie emozioni così mi comportavo seguendo la via più logica e alla mia portata. Pensavo ai numeri, a come portarlo via io che avevo appena imparato a far atterrare un Tiger Moth, a come gestirlo (sarei stato in grado?), a come pilotarlo (non l'avrei distrutto?), a come manutenerlo (me lo sarei potuto permettere?).
Nel mio hangar a Sutri non entrava. Questo dà l'idea delle dimensioni.
Finalizzammo la vendita davanti a un gulash e a una bottiglia di rosso, Igino con grande generosità mi diede anche i due splendidi caschetti di cuoio con le cuffie aeronautiche e un GPS Garmin, organizzammo a pagamento avvenuto il volo di addio di Greta: io non ero in grado e Mila che mi aveva accompagnato non se la sentiva di avere una simile responsabilità, quindi chiesi a Mauro Di Biaggio, il gestore della meravigliosa aviosuperficie di Caorle. Concordai quello che per me era un servizio professionale a pagamento, portare un biplano da Gorizia a Caorle in volo, e per Mauro invece fu un divertimento, "ma dai mi è piaciuto, mi offri una cena e siamo a posto". Solidarietà tra piloti di biplano o forse ancora fortuna.
Mentre andavamo in macchina insieme a Gorizia Mauro fece le pulci al libretto dell’aereo controllando orari, manutenzione, problemi. Controllò tutto il mezzo che doveva portare in volo, si allacciò il paracadute personale e partì. Beh, aspetta, l'ho fatta facile per brevità: in realtà andammo un numero discreto di volte a Gorizia e ogni volta c'era nebbia. Riuscimmo a fare quel volo solo il 20 febbraio, due mesi e mezzo dopo l’acquisto. Per me che abito a Roma capisci che arrivare in macchina a Caorle a prendere Mauro, andare a Gorizia e scoprire che è stato un viaggio inutile non è proprio piacevole. Ma faceva parte del gioco. Anche Mila quando prese il suo Tigrone in Germania dovette aspettare e provare più volte.




Bucker Jungmann
Il primo volo del mattino a Caorle
Poi a Caorle cominciai a sentirlo mio. Non sapevo come toccarlo, come pilotarlo, non sapevo se sarei riuscito a portarlo nel Lazio. Ma avevo un biplano. Un bel biplano. Dopo il Tiger Moth di Mila per me Greta è il più bel biplano ultraleggero in Italia. Così non ero ancora il pilota del mio mezzo ma solo uno che aveva acquistato un biplano, e tra le due cose c’è una differenza gigantesca.
Andavo a Caorle per prendere lezioni da Mauro. Ci sono bungalow in testata pista per i piloti, dormivo lì, la sera entravo in hangar e ammiravo il biplano, il giorno con Mauro facevamo touch and go sull'enorme pista. Scoprii che Greta non era pacioccona come Tigrone. Greta voleva controllo, rispondeva, era un rapporto più professionale che emotivo quello tra Greta e il pilota. Era molto differente, dovevo imparare tutto di nuovo. E mentre imparavo venivano a galla i difetti del mezzo: il tubo della benzina ridotto a creta, il serbatoio spaccato, il carrello di coda rotto, il motorino di accensione in corto. Lavori e lezioni a 800 km da casa. Un costo inaspettato ma anche qualcosa che mi rimane dentro.
Alzarmi all'alba nel bungalow, aprire l'hangar mentre il sole sorge, tirare fuori Greta, mettere in moto squarciando il silenzio, un decollo senza testimoni e via per le lagune venete. Scorrere lenti lungo le coste e i corsi d'acqua mentre il disco rosso del sole sale piano, atterrare che ancora non c'è nessuno, sentire di nuovo il silenzio quando il motore si spegne e restano gli scricchiolii del metallo riscaldato, andare solo allora a fare colazione. E l'ultimo volo della sera, atterrare nell’oro del crepuscolo quando tutti sono via e sentire l'eco della porta dell'hangar gigantesco che si chiude. Fare amicizia con i piloti, sentire il complimento del figlio di Mauro "tu sei uno dei pochi che non si dà arie". Arie? Mi sentivo un pollo, incerto su tutto, potevo distruggere il biplano a ogni atterraggio e volavo con un mezzo che ogni due giorni dimostrava un difetto da aggiustare immediatamente. Arie? Ma scherziamo?
Anzi un giorno dopo una serie di atterraggi da cane che mi hanno fatto esclamare "Mauro, basta, atterra tu, non sono capace" ho ricevuto da Mauro il discorso migliore che qualcuno mi potesse fare.
"Gianni lo so: tu ti senti che tutti gli altri sono piloti e tu no, non sei all'altezza. Ti senti che gli altri hanno un aereo vero e tu hai un mezzo che anche lui non è all'altezza. Voglio dirti che ci siamo passati tutti. Il tuo aereo è come gli altri. Tu saprai volare come gli altri. Credi che chiunque, qui, quando aveva le ore di volo che hai tu volasse meglio di te ora? Abbiamo pensato tutti quello che tu pensi oggi. E chi ha insistito è diventato pilota. Fidati del tuo aereo e fidati del pilota che sarai.“
Mi ha aiutato tanto pensare che i fallimenti facessero parte del gioco e fossero condivisi, un patrimonio comune tra molti i aviatori. Quando poi un'amica pilota mi ha raccontato della sua frustrazione nel trovare enormi difficoltà a  imparare gli atterraggi gli raccontai di Mauro, gli dissi che in effetti anche io mi sentivo esattamente come lei quando imparai ad atterrare,  e questo le fu di aiuto. Sapere che le proprie difficoltà sono già state provate e superate da altri e fanno parte del percorso.

Dopo un anno di saltuari fine settimana a Caorle e dopo essermi goduto gran parte del litorale e della pianura veneta, ormai ero pronto per decollare con prua Emilia Romagna per atterrare nella pista di Mila dove avevo imparato a volare con il Tiger Moth, Lyra 34. 450 metri, la metà della pista di Caorle, ma mi ero allenato per farcela.

In giallo Gorizia - Caorle
In rosso Caorle - Valle Gaffaro - Lyra 34
Finalmente il giorno. 21 gennaio 2017. Più di un anno dopo l’acquisto. Giorno in cui finalmente non c'era nebbia, dopo tanti tentativi andati a monte per visibilità zero finalmente mi metto a bordo e saluto tutti i piloti di Caorle. Grazie Mauro, ciao. Temperatura esterna a livello suolo quattro gradi centigradi: se mi metto il giaccone sopra la tuta non entro in cabina quindi vado senza giaccone. No, non sono un masoschista, avevo un gilet caldo sotto e la tuta imbottita sopra, sarei stato bene lo stesso. Speravo.
Greta si prende cura del pilota, questo lo sapevo. Lo protegge. Decollo e nell’abitacolo sto benissimo, l’aria calda che viene da uno sportelletto del parafiamma tra il motore e le mie gambe è magnifica, la mia statura da puffo mi fa godere della grande protezione dell’abitacolo studiato per cavalieri teutonici usciti da un’opera di Wagner. I guanti, quelli sì, sono preziosi e mai abbastanza caldi, ma il resto è benessere puro, basta abbassare bene il caschetto di cuoio sulla fronte.
Salgo in uno splendido cielo azzurro, vedo l’aviosuperficie farsi lontana, penso che se ci sono problemi posso sempre girare la prua e tornare là.  Ma non ci sono problemi. Passo sulle risaie, sulle coste, sui corsi d’acqua che avevo imparato a conoscere come una casa, in direzione Venezia. Dio che emozione. L’aria è cristallina e fresca, i quattro gradi a terra mi fanno compagnia nel viaggio ma è appena passata l’ora di pranzo, la temperatura non scenderà per un po’. Seguo la costa, andare verso Venezia è spettacolare, ci sono paesaggi che non sembrano di questo mondo. Strisce di terra e case lambite dalle acque, più barche che macchine, città nelle lagune da cui spuntano enormi navi da crociera. Non c’è vento, pilotare è rilassante, il motore suona bene e alla radio non c’è nessuno.
Venezia, eccola. Venezia è una prova di fiducia. Perché anche se vorrei ammirarla da vicino va passata a distanza, c’è un aeroporto che non mi vuole. Così bisogna allontanarsi, entrare nel mare per un paio di chilometri: questo lo fai solo se ti fidi del tuo aereo. Se hai dubbi sul motore, sulla struttura, su di te, non c’è il coraggio di andare così al largo. OK Greta, mi fido, entriamo in mare aperto per il tratto necessario. Il cuore accelera, sì, sono solo, sono in mare, sono un pollo. Certo che il cuore accelera. E anche da lontano Venezia è stupenda.
La rotta è facile. C’è una fettuccina di terra in mezzo al nulla del mare, devo seguirla. Vista sulla mappa sembra una costa, vista in volo è una assurdità bellissima. Quando finisce ecco un rettangolo di tetti ammassati circondati da acqua, Chioggia.  Sono a un pelo dalla metà viaggio e intanto il motore ha un suono regolare e rassicurante, ogni tanto faccio esercizi per le mani che sono l’unica parte del corpo che mi ricorda la temperatura esterna; passo meno tempo a controllare gli strumenti, cosa da inesperti, e passo più tempo a guardare fuori e pensare, cosa da piloti.
Penso che non avrei mai immaginato solo due anni prima di vivere un giorno una avventura simile.
Penso che sono solo.
Penso che Mila, ormai il mio più-che-fratello acquisito, che mi ha accompagnato a Caorle solo per vedermi partire, ora con la sua auto è un puntino laggiù perso nel traffico che da Caorle sta raggiungendo Valle Gaffaro, il luogo dove abbiamo appuntamento, una pausa a terra prima dell’ultimo tratto. Ed è troppo lontano per sentirlo alla radio, la sua auto che è veloce quanto il mio biplano deve fermarsi ai semafori e rallentare per il traffico, io no.

Dopo Chioggia finisce la fase costiera del viaggio. Troppo facile seguire la costa. Ora metto la prua a sud, inizio a sorvolare l’entroterra del Polesine. Il cuore torna a battere normalmente, sotto di me ci sono molte case ma anche campi in cui se fosse necessario potrei atterrare. Mantengo la rotta sino ad attraversare il grande ramo del Po di Venezia verso il Delta del Po e da lì la rotta è facile, ci sono due corsi d’acqua che vanno verso sud, qualunque io sorvoli sarò in grado di vedere il grande bosco attiguo all’aviosuperficie. Il GPS, piccolo e nascosto a un lato della coscia – l’unico punto disponibile nella cabina – mi conferma la rotta. E ci sono delle grosse ciminiere come riferimento.
Ecco il bosco ma la grande aviosuperficie, un campo tra i campi, per assurdo non riesco a identificarla. Sono tutti campi uguali. Poi la scorgo, faccio il circuito per atterrare e appena ce l’ho alle spalle la perdo. La pista inizierà qui? O più in là?
Pollo.
Un altro giro, trovarla, prendere punti di riferimento, atterrare. Sono le 15:30. Un’ora e mezza di volo: non è tanto ma in quell’ora e mezza ho lasciato l’hangar che era stato casa, ho valicato un confine regionale e uno personale. Non si torna indietro, è fatta, sto vivendo quello che sognavo.
Emozioni? No, sono troppe e tutte caotiche, sono solo contento, eccitato, sorrido. Ci sarà tempo poi per le emozioni. Ora annoto che mi sono fidato di Greta entrando in mare aperto e lei si è meritata la mia fiducia. Annoto che non ci sono problemi tecnici, le temperature sono nei parametri, io e il biplano stiamo bene. Finalmente faccio qualche foto ma solo dopo una pausa pipì (ricordi? Quattro gradi centigradi) e una telefonata a Mila: lui è ancora lontano, mi chiede di aspettarlo. Lo aspetto. Sento il metallo di Greta scricchiolare raffreddandosi. Non c’è nessuno nell’aviosuperficie, il mio unico contatto è Mila al telefono di quando in quando. Sono volato via dal nido e non c’è nessuno per condividere, non ancora. Ma anche non c’è nessuno che mi controlli l’aereo, che mi dia consigli sul resto del volo, che mi saluti mentre riparto. Inizio a capire quel punto di cui ho scritto nel post precedente, il punto oltre il quale si fa parte di una magnifica comunità ma si è indiscutibilmente soli e i grandi momenti si impara a conservarli solo nella nostra memoria.

Bucker Jungmann
Valle Gaffaro, e il sole è basso
Aspetto e aspetto ma comincia a farsi tardi: devo arrivare al nuovo hangar prima che tramonti il sole ma già il sole è vicino all’orizzonte, se è buio non riesco né a trovare la pista né ad atterrare. Mila per fortuna arriva, in tempo per un abbraccio e per dirmi anche lui “è tardi, devi partire”. Così alle 16:15 torno a bordo, riscaldo il motore, alla radio annuncio a nessuno che sto per decollare dalla pista di Valle Gaffaro, allineo la prua alla pista dopo le prove motore e do tutta manetta: si torna in cielo. 

Prua ancora a sud. Passo una enorme magnifica palude. Forse dovrei chiamarla laguna ma dal mio punto di vista è solo un’indicazione geografica, uno spettacolo oltre il bordo della cabina, oltre il cielo e il flusso del vento freddo dell’elica. Devo sbrigarmi ormai, per questo non ho fatto il turista volando intorno all’abbazia di Pomposa come mi aveva mostrato Mila col suo Tigrone, però non posso evitare di perdere tempo sulla laguna, osservare lontani i fenicotteri rosa, scendere basso sull’acqua. Poco poco, sono ancora un pollo, certo.
Ora che il più è fatto sono più tranquillo. Ma pareggia i conti l’esigenza di sbrigarmi, è gennaio e non ho ancora molta luce a disposizione. Però ho volato sul mare: anche se non c’entra nulla questo mi tranquillizza. Le paure non sono brave insegnanti, se i numeri ci sono allora si può stare tranquilli. E i numeri dicevano che io avevo il tempo di arrivare alla meta giusto giusto.
Sud. Dopo la palude ecco apparire lontano davanti a me il delta di Comacchio. Devo passargli a ovest, costeggiarlo. Facile. Se dalla sua costa ovest seguo le strade o i corsi d’acqua che vanno verso sud trovo Alfonsine. Da lì metto rotta dritta a ovest e arrivo alla meta, Lyra 34, l’aviosuperficie di 450 metri che mi ospiterà. Il sole è basso, il paesaggio diventa ombra, il motore continua a tranquillizzarmi col suo canto.
Pian piano ritrovo i paesaggi che avevo visto in volo con il Tiger Moth di Mila quando mi insegnava ad atterrare con una Signora dei cieli.
Comincia a essere tardi, il sole è all’orizzonte e io sono ancora su Alfonsine, poi il sole sparisce e mentre la luce cala ecco i riferimenti, ecco il campo! Atterraggio, e mentre mi approssimo alla pista ci sono due piloti in me, uno è quello sicuro di sé e felice di essere al termine di un’impresa tanto grandiosa, l’altro quello insicuro e preoccupato perché è il mio primo atterraggio col mio mezzo troppo veloce rispetto al Tiger Moth su quella piccola pista, e la luce è appena sufficiente. Due piloti che conducono lo stesso mezzo fanno danni. Quindi l’atterraggio non è il migliore del mondo, il biciclo rimbalza come un canguro, poi si ferma entro i limiti della pista deserta. Ho le ruote a terra, sono fermo, sono a Lyra 34. Sorrido sin quanto i muscoli me lo permettono.
Giro il muso del biplano per tornare agli hangar, anche qui nessun testimone, nessuna fotografia. Fermo Greta davanti all’hangar di Mila, che arriverà a breve e ospiterà per i mesi successivi Greta accanto al suo Tigrone. Fermo il motore, per oggi è tutto, restano gli abbracci con Mila per aver coronato insieme un sogno grazie al suo insostituibile aiuto, la cena con un vino rosso per festeggiare, il sonno che dopo tanta attenzione ed emozioni arriverà come un’onda. Ma questo dopo. Ora resto nella cabina del biplano fermo davanti all’hangar senza smettere di sorridere, lento slaccio il caschetto, tolgo le cinte di sicurezza, ammiro il crepuscolo tra le due semiali e i loro tiranti. Grazie Greta. Grazie per avermi mostrato cosa possiamo essere, che vita possiamo desiderare.
Fuori della cabina, un piede sull’ala, poi in terra. Una carezza a Greta. E quel gesto d’affetto spontaneo dopo aver costeggiato l’Italia mi fa pensare che sto smettendo di essere uno che ha acquistato un biplano e sto iniziando a trasformarmi davvero in un pilota di biplano.