Passando quindi ad argomenti meno cocenti ecco quello a cui non si pensa: il punto.
E sì, perché esiste un punto.
Esiste per tutti gli aerei ma il punto dei biplani è davvero notevole.
Mi spiego: si studia per diventare piloti di biplano, e si hanno mille compagnie. Allievi come noi, istruttori, altri piloti. Incoraggiamenti, consigli, critiche costruttive o meno.
Poi si cerca un biplano. E ci sono amici apparsi magicamente che ci danno una mano, contatti nuovi con cui condividere aspettative e delusioni, meccanici e tecnici con i loro istruttivi punti di vista.
Quindi ecco l'hangar, che è più un salotto che un condominio, dove non si è mai soli.
Ma alla fine arriva quel punto. Quando si acquista quello specifico biplano con quella unica configurazione, quando si vola, quando si pensa a tutta la strada che ci ha portato esattamente sino lì.
È il punto che arriva dopo il decollo, dopo che la radio fa silenzio e le ruote sono staccate da terra e stiamo giocando con la potenza e la cloche: è il punto in cui anche se ci fosse un passeggero quel pensiero arriverebbe comunque. "Ora sono solo. Ora devo cavarmela da solo. Non c'è nessuno che possa aiutarmi, che possa vivere questa esperienza insieme a me, darmi un consiglio o solo una pacca sulla spalla."
La certezza che qualunque cosa accada da lì all'atterraggio ci sarai solo tu ad affrontarla, che qualsiasi gioia tu possa provare sarà solo tua. Il passeggero o il compagno in formazione, se ci sono, vivranno il loro volo diverso dal tuo, avranno i loro problemi e le loro gioie diverse dalle tue.
Questo fa sentire soli. No, non è la frase giusta: questo fa sentire felicemente soli. Perché ci sono purtroppo emozioni tanto grandi che non possono essere condivise e il volo in biplano fa parte di queste. Non solo è impossibile da condividere, è pure impossibile da raccontare: Richard Bach ci è riuscito prendendolo spesso come simbolo della conquista di una Verità superiore, di una libertà e ricerca e coraggio di decollare che non era mai stato raccontato prima. E verità, libertà, ricerca e coraggio sono concetti noti e positivi che quindi ci aiutano a capire cosa si prova volando tra ali e tiranti. Ma da qui a spiegare la gioia di quel volo ci passa un mondo.
Sabato scorso sono stato immerso in un tramonto per 42 minuti. Bel numero. Gridavo cose sceme come "Yabadabadù!" e inclinavo le ali una volta a destra e una a sinistra facendo ogni volta girotondi completi col mondo terribilmente obliquo davanti a me come un ubriaco di notte la cui testa vuole tornare a casa ma le gambe lo portano a passi di danza verso un altro bar. E come lui una volta tramontato il sole ho annunciato via radio il mio atterraggio, "Santa Severa, India Alfa 1 3 4 vira in base destra per 3... No, scusate, resto ancora su" e via a fare un giro (un altro!) intorno al castello sulla spiaggia appena illuminato da spade di luci, a godere dei suoi riflessi sul mare. E come fai a descrivere cosa si prova?
Una volta atterrato - era così tardi che il gestore della pista suggeriva che se fossi restato ancora qualche minuto in volo avrebbero dovuto illuminare la pista con i fari delle macchine per permettermi di atterrare e non scherzava poi molto - dopo essermi tolto lentamente il caschetto di cuoio sono rimasto dentro l'abitacolo a godere degli odori, gli scricchiolii, il calore, il silenzio improvviso dentro le cuffie e fuori. Per smaltire le emozioni, per rendermi conto che davvero, davvero io avevo vissuto quel volo, quella esperienza così incredibile e indescrivibile. Appena 42 minuti.
Ecco, si è soli anche in questo: nel non poter descrivere ciò che si vive. Sì, questo vale per tutto, ma quando si ha una esperienza tanto forte come quella del volo in biplano è dura tenersela per sé. Ma come uso dire, o chi ti ascolta non è un pilota allora non potrà mai capire cosa stai dicendo, o chi ti ascolta è un pilota allora è inutile che glielo descrivi: già lo sa.
Solitudine quindi. Annunciata da un punto specifico: un attimo dopo il decollo. Da lì all'atterraggio tutto ciò che accade ti appartiene ed è solo tuo, dovrai custodirlo senza poterlo davvero condividere con nessuno, gioie e problemi. Dovrai farti carico di risolvere ogni cosa con la tua esperienza e questo è un compito che cambia il carattere, che ti rende diverso. Ti fa capire che non ne sai mai abbastanza ma che devi cavartela da solo con quel non abbastanza, e che te la caverai.
Ma oltre alla solitudine quel punto ti porta una consapevolezza opposta: che fai parte di un gruppo di persone con una identità tanto forte da poterli considerare quasi fratelli, alcuni più che fratelli. Persone che vivono ognuna il proprio volo ma poi a terra basta uno sguardo per capire che anche l'altro è stato felice quanto te e come te e non rinuncerebbe davvero al volo appena fatto, non vorrebbe essere in nessuna altra parte che non sia lì a volare. Un gruppo di persone che, e parlo per esperienza, considera davvero prioritario aiutare un altro pilota o solo accoglierlo come se si trattasse di un vecchio amico anche se è la prima volta che lo si incontra.
Strano come una esperienza di solitudine tanto forte, tanto personale e formativa, possa generare uno dei più forti legami di gruppo che abbia conosciuto. Inaspettatamente bello, una delle cose che nessuno scrive sui manuali e che da sola valgono la pena di conoscere il mondo di questi grandiosi mezzi volanti e delle persone che dedicano loro la vita.